09 luglio 2025

Lasciatemi soffrire in pace!


 Mi è capitato di leggere il post di una ragazza che chiedeva aiuto per la sua situazione relazionale. Scriveva:

> “C’è un uomo che mi ama e desidera vedermi felice, ma io non sono abituata… e lui non riesce a capire che io voglio solo stare nel mio dolore. Cosa posso fare?”

La frase mi ha colpito. Non solo perché, di fatto, rifiutava la felicità, ma anche perché sembrava chiedere aiuto per poter continuare a soffrire in pace. Non era solo un grido di dolore, era una forma di attaccamento alla sofferenza.

Anche io, in passato, ho avuto una relazione con una donna che si lamentava proprio di questo: non poteva vivere appieno il suo dolore, perché io cercavo – con la mia presenza e il mio affetto – di aiutarla a uscirne. Ma lei sembrava difendere quel dolore come qualcosa di prezioso, come un diritto da preservare. Ero incredulo. Chi mai, pensavo, può voler **“godere” del proprio dolore?

Eppure la psicologia ci insegna che, per quanto paradossale, questo è un meccanismo più diffuso di quanto si pensi.

Perché alcune persone vogliono restare nella sofferenza?

Chi sta male, ma rifiuta l’aiuto, spesso non lo fa per capriccio o incoerenza. Ci sono ragioni profonde, anche se inconsapevoli:

Il dolore diventa identità: se mi sono sempre sentita non amata o ferita, chi sarei senza questo dolore? Accettare l’amore di qualcuno metterebbe in crisi tutta la mia storia interiore.

Il dolore è prevedibile, la felicità no: stare male mi fa sentire in controllo, mentre il benessere è fragile, espone alla possibilità che qualcosa (o qualcuno) lo distrugga.

Il dolore attira attenzione e vicinanza: a volte la sofferenza è l’unico linguaggio che abbiamo imparato per sentirci visti o considerati.

In psicologia si parla di “vantaggio secondario” del sintomo: anche se fa male, quel sintomo serve a qualcosa. Protegge da un dolore ancora più grande: il rischio di amare, fidarsi, cambiare.

Quando il dolore è un rifugio

Chi vive così non vuole davvero soffrire… ma non sa vivere senza soffrire. È come se la felicità fosse troppo scomoda, troppo strana, quasi colpevole. E allora si rifugia nel dolore, perché lì almeno sa chi è.

In questi casi, la peggiore risposta è insistere perché “si riprendano”. Non serve forzare la felicità. Serve entrare in quel dolore, comprenderne la funzione, smascherare la sua illusione di protezione.

Solo allora si può aprire uno spiraglio. Non per combattere il dolore, ma per non doverlo più usare come unica via per sentirsi vivi.