14 agosto 2019

Intervista a Ciro Discepolo su di un caso di cronaca nera




Possiamo ricercare la verità solo nel momento in cui siamo disponibili ad assumerci la responsabilità di quel che diciamo. Questo è ciò che ho appreso in generale dalla vita. E queste parole risuonano forti nella mia mente da quando studio e pratico l’Astrologia: la mia verità, quella che potremmo evincere analizzando pianeti e Segni zodiacali, quanto può influire nella vita del consultante?
Sembra una cosa da poco e invece la responsabilità sta alla base di tutto, anche alla base della scienza stessa che dovrebbe legittimare o meno certi fatti. Il prezzo che la scienza paga ad ogni suo sbaglio è l’autocorrezione; ma quando si tratta di valutare un essere umano il discorso si fa più serio, soprattutto quando bisogna decidere della sua libertà o della sua prigionia.
Ed è proprio il punto della questione di oggi: da un lato abbiamo l’accusa, da un lato la difesa e dall’altro il presunto colpevole conto tutto ciò che ruota attorno alla verità, alla concezione di verità, alla realtà. Paolo Franceschetti mi ha illuminato molto a proposito di questi argomenti. Già da un po’ di anni si è occupato del caso del “mostro di Firenze” (per chi non ricordasse di cosa si tratta, più in basso eccovi un estratto da Wikipedia) vicenda che ha appassionato moltissimi criminologi oltre che “investigatori fai da te”, col pallino della “verità”. Il Tema Natale di Paolo mostra Marte, Urano e Plutone congiunti in Vergine e nella X Casa, segnature che lo hanno catapultato all’interno della vicenda stessa: è entrato dentro la storia facendo addirittura la conoscenza di personaggi direttamente e indirettamente coinvolti nei fatti, ma ha dovuto pagare un prezzo a volte troppo alto: la paura per la sua incolumità fisica. La sua conclusione, per quanto possa sembrare una minestra riscaldata, è che la verità spesso supera la fantasia. Ed è la coscienza di riconoscere ciò che si ha da perdere e da guadagnare che ha motivato la sua ricerca. Ma non è l’unico a ragionare in questi termini “eroici”.
Ciro Discepolo è un altro di quelli che non si è mai inchinato davanti a niente e nessuno pur di raccontare i fatti, e si è assunto sempre la responsabilità di ogni sua frase. Ed è infatti l’esempio che molti dinoi astrologi cerchiamo di emulare. Da qualche tempo si sta interessando, anche astrologicamente, a quei casi di cronaca che più hanno fatto discutere; ma ora torna a lavorare a un nuovo progetto editoriale interamente dedicato proprio al mostro di Firenze. Così, ecco la mia intervista a Ciro Discepolo che solo per i lettori di questo blog concede alcune anticipazioni che senz’altro potranno fare gola agli appassionati.     
Buona lettura.

Giuseppe Galeota: Dove nasce la tua decisione di scrivere un libro sul “Mostro di Firenze”?
Ciro Discepolo: Da sempre la criminologia mi ha fortemente interessato. Da ragazzo attraverso la letteratura e il cinema, soprattutto. In seguito anche a mezzo di trasmissioni televisive tutte dedicate a fatti gravi di cronaca e soprattutto ai misteri insoluti o parzialmente insoluti. Più recentemente — ma andiamo indietro almeno fino al massacro compiuto da Erika e Omar — ho sistematicamente tentato di studiare, astrologicamente, efferati delitti e, quando riuscivo a procurarmi i dati di nascita, con ora di nascita, dei protagonisti degli stessi, ho anche redatto e pubblicato interi libri e non solo articoli, come per l’omicidio della piccola Sarah Scazzi o della povera Yara Gambirasio e, più recentemente, per la strage di Erba compiuta da Olindo e da Rosa.
Giuseppe Galeota: E come sei passato, poi, a delitti tanto vecchi? Addirittura di oltre mezzo secolo fa?
Ciro Discepolo: Perché credo che a livello mondiale i misteri relativi al Mostro di Firenze non siano mai stati superati se mettiamo assieme numero delle vittime, atrocità nelle modalità dei delitti, numero di inquisiti, numero di processi iniziati (e non tutti terminati), fatti assolutamente incredibili come, volendone citarne uno solo, che Mario Spezi, il cronista de La Nazione di Firenze che ha seguito dall’inizio questi casi, è stato a sua volta accusato di essere lui il mostro di Firenze e si è fatto anche del carcere. Le ipotesi di investigatori, magistrati, poliziotti, carabinieri, criminologi, psicologi, giornalisti, scrittori, blogger sono andate in tutte le direzioni e credo che qualcuno abbia indicato anche il Papa tra i mandanti degli omicidi… È mia opinione che tali fatti resteranno di grandissima attualità anche fra duecento anni. Alcuni colpevoli sono stati individuati e anche condannati in via definitiva. Decine e decine restano ancora le lacune e le piste ancora aperte. Ecco: poter gettare la lente astrologica in questo oceano di misteri criminali, forse il più grande oceano di sempre e di tutto il mondo per numero di link, mi ha affascinato moltissimo e spero di poter dare anche io un mio contributo alla conoscenza dei fatti.
Giuseppe Galeota: Hai già una pista?
Ciro Discepolo: No, intendo procedere in un altro modo. Valuterò, da un punto di vista astrologico, con cieli di nascita, Rivoluzioni Solari e Lunari e transiti, i protagonisti di ogni pista in rapporto alle date dei delitti ed esprimerò il mio pensiero in merito al grado di compatibilità di ogni ipotesi investigativa.
Giuseppe Galeota: sembra un lavoro enorme. Cosa ti preoccupa di più?
Ciro Discepolo: Sì, da mesi sto leggendo per una decina di ore al giorno non solo le carte processuali, ma anche le tesi, in rete o in libreria, di decine e decine di persone che studiano anche da mezzo secolo (il primo delitto fu compiuto nel 1968) questi fatti. La fatica mi preoccupa più di tutto perché per il resto ho eliminato alla fonte una sorgente enorme di possibili problemi: un editore. Infatti mi pubblicherò con la mia casa editrice (Ricerca ’90 e utilizzando la piattaforma di stampa e di distribuzione di Amazon). In questo modo sarò anche più libero di scrivere ciò che penso, senza temere di subire censure.
Giuseppe Galeota: Quando potremo leggere il libro?
Ciro Discepolo: Non saprei perché man mano che leggo, vengono fuori nuovi possibili protagonisti e allora devo cominciare a procurarmi gli estratti di nascita di costoro: sto trovando una gentile e grandissima collaborazione nelle anagrafi pubbliche, ma a volte occorrono anche due mesi per un singolo certificato. Spero di pubblicarlo prima della fine dell’anno.

Qui si conclude l'intervista a Ciro Discepolo. 
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Ecco qui di seguito i punti salienti del caso che io ho estratto da Wikipedia alla pagina: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze 




Mostro di Firenze è la denominazione utilizzata dai media italiani per riferirsi all'autore o agli autori di una serie di otto duplici omicidi avvenuti fra il 1968 e il 1985 nella provincia di Firenze.
L'inchiesta avviata dalla procura di Firenze ha portato alla condanna in via definitiva di due uomini identificati come autori materiali di 4 duplici omicidi, i cosiddetti "compagni di merende", Mario Vanni e Giancarlo Lotti (reo confesso e chiamante in correità dei presunti complici), mentre il terzo, Pietro Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per 7 degli 8 duplici omicidi e successivamente assolto in appello, è morto prima di essere sottoposto a un nuovo processo di appello, da celebrarsi a seguito dell'annullamento nel 1996 della sentenza di assoluzione da parte della Cassazione.
Le procure di Firenze e Perugia sono state impegnate in numerose indagini volte a individuare i responsabili esecutori materiali per 4 duplici omicidi e poi i possibili mandanti. Le indagini si sono focalizzate anche su un possibile movente di natura esoterica, che avrebbe spinto una o più persone a commissionare i delitti[3][4]. La vicenda ebbe molto risalto mediatico in quanto fu il primo caso di omicidi seriali in Italia riconosciuto come tale e uno dei più sanguinosi del Paese, oltre che dilatato nel tempo che creò una vera e propria psicosi da mostro, di anno in anno, e mise le basi anche per riflessioni dal punto di vista sociale: suscitando estrema paura per la tipologia di vittime (giovani fidanzati in atteggiamenti intimi), aprì l'opinione pubblica italiana al dibattito sull'opportunità di concedere con maggiore disinvoltura la possibilità per i figli di trovare l'intimità a casa, evitando così i luoghi isolati e pericolosi[5][6][7][8][9].

La serie di delitti e i primi sospettati
Antonio Lo Bianco e Barbara Locci (21 agosto 1968)
Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini (14 settembre 1974)
Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio (6 giugno 1981)
Stefano Baldi e Susanna Cambi (22 ottobre 1981)
Paolo Mainardi e Antonella Migliorini (19 giugno 1982)
Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch (9 settembre 1983)
Claudio Stefanacci e Pia Rontini (29 luglio 1984)
Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot (7/8 settembre 1985)

Indice

19/7/2019 Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti 2/29

sospettate
Periodo
Omicidi

21 agosto 1968 - 8
settembre 1985

Luoghi colpiti Toscana, campagne
intorno a Firenze

Metodi
Uccisione

Colpi di arma da
fuoco,
accoltellamento e
mutilazioni sessuali

Provvedimenti Ergastolo per Mario
Vanni e 26 anni per
Giancarlo Lotti nella
sentenza definitiva
di condanna ai
"compagni di
merende"[1]. Pietro
Pacciani, condanna
all'ergastolo, poi
ribaltata e infine
annullamento con
rinvio[2]

Indagini
"Pista sarda"
L'ipotesi Pacciani

Processi
Processo a Pacciani
Processo ai "compagni di merende"
Mario Vanni
Giancarlo Lotti
Fernando Pucci

Ipotesi sui presunti mandanti
Possibili collegamenti con il caso Narducci
Ipotesi Francesco Calamandrei
Ipotesi alternative alle sentenze giudiziarie

Ulteriori teorie

Misteri connessi alla vicenda
Sviluppi successivi della vicenda
Giampiero Vigilanti
Influenze nella cultura di massa
Filmografia
Note
Bibliografia
Voci correlate
Altri progetti
Collegamenti esterni

I reati del Mostro di Firenze vennero commessi nell'arco di 17 anni e hanno riguardato giovani coppie appartatesi nella campagna fiorentina. I delitti vennero commessi con mezzi e modus operandi costanti, nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e, tranne quello del 1985 in cui le vittime erano in una tenda da campeggio, tutte le altre erano all'interno di autoveicoli in luoghi appartati e notti di novilunio, o comunque molto buie, quasi sempre d'estate (l'unica eccezione fu quella del delitto del 22 ottobre 1981), nel fine settimana o in giorni prefestivi[6]. Venne sempre usata la stessa arma da fuoco, identificata come una pistola Beretta della serie 70 (probabilmente il modello 74 o 76 da dieci colpi), calibro .22 Long Rifle, in commercio dal 1959, probabilmente un modello con canna lunga, sviluppata come propedeutica alla disciplina sportiva del tiro a segno, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera H sul fondello del bossolo (provenienti da almeno due scatole da 50 cartucce ciascuna), con palla in piombo nudo e con palla in piombo ramato galvanicamente.
Generalmente, soprattutto nei delitti esplicitamente maniacali, il serial killer sparava preferibilmente prima alla vittima maschile e poi alla donna. La vittima femminile, quando subiva le escissioni o veniva martoriata con l'arma da taglio, veniva trascinata, spostata, allontanata dall'auto e dal partner. Spesso le vittime, sia maschili che femminili, subivano pure ferite d'arma bianca inferte postmortem.

La serie di delitti e i primi sospettati
19/7/2019 Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti 3/29
In quattro degli otto duplici omicidi, l'assassino ha asportato il pube servendosi di un'arma bianca; negli ultimi due casi venne asportato anche il seno sinistro. I luoghi dei delitti (Signa, Borgo San Lorenzo, Scandicci, Calenzano, Baccaiano, Giogoli, Vicchio, Scopeti) erano per lo più isolate strade di campagna sterrate o piazzole nascoste frequentate da coppie. Ciò ha portato a pensare che l'assassino fosse una persona che conosceva piuttosto bene i territori dei luoghi dei delitti e che, in alcuni casi, pedinasse le vittime prima di ucciderle[6].
Il profilo più comune del killer, che emerse dalle prime indagini, fu quello di un uomo destrimane della zona, iposessuale, feticista, d'intelligenza normale o superiore alla media, alto circa 1,80 m. Queste caratteristiche psico-fisiche si evincono dalla perizia De Fazio e dal profilo dell'FBI della sede di Quantico, anche se occorre ricordare che gli studi delle modalità dei delitti, al momento, non garantiscono certezze scientifiche sull'identità del killer, ma solo delle tracce di profilazione criminale che, come tali, sono più o meno condivisibili[10]. L'altezza superiore alla media dell'assassino venne ipotizzata in base all'altezza dei fori nel furgoncino delle vittime di Giogoli[11]. Il dato trarrebbe conferma anche da una possibile impronta di un ginocchio, forse lasciata dal killer nell'omicidio di Vicchio; scientificamente però questi rilievi sull'altezza del killer non si sono concretizzati in prove processuali inoppugnabili, vista la condanna in primo grado inflitta a Pacciani come unico serial killer, nonostante la sua altezza fosse di solo 165 cm circa. Secondo altre opinioni, invece, l'assassino seriale fiorentino sarebbe di altezza media o persino modesta[12][13].
La notte del 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, muratore originario di Palermo di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, originaria di Villasalto, in Provincia di Cagliari; i due erano amanti; la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Quella sera i due si erano recati al cinema di Signa per visionare, stando ad alcune fonti, il film Nuda per un pugno di eroi[14]; il gestore del cinema li riconobbe, successivamente, dalle foto pubblicate sui giornali; egli escluse, però, la presenza del figlio della donna in quanto, considerato il film proiettato, non lo avrebbe fatto entrare. Sostenne, infine, che dopo l'entrata della coppia al cinema entrò soltanto un altro uomo del quale, però, non ricordava la fisionomia[15]. Secondo ulteriori fonti, una cassiera del cinematografo, vide invece la Locci con in braccio il figlio semi-addormentato all'uscita del cinema[16]. A serata conclusa, i due si erano poi appartati in macchina. Sul sedile posteriore dormiva Natalino Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino si avvicina all'auto ferma e spara complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno repertati cinque bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello.
Intorno alle due del mattino del 22 agosto, il bambino suona alla porta di un casolare sito in via del Vingone 154, a oltre due chilometri di distanza da dove era parcheggiata l'automobile. Il proprietario, De Felice, sveglio per via del figlio malato che ha chiesto dell'acqua, si affaccia immediatamente alla finestra, e davanti alla porta vede il bambino che scorgendolo a sua volta gli dice: "Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina"[17]. Dopo averlo soccorso, l'uomo gli chiede chiarimenti e il piccolo stentatamente riferisce altri particolari sul suo arrivo fin lì: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare "La Tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato"[17]. I Carabinieri, chiamati mezz'ora dopo da De Felice, si mettono alla ricerca dell'auto portandosi dietro il bambino. Intorno alle tre del mattino l'auto viene ritrovata grazie anche all'indicatore di direzione dell'auto rimasto acceso, nella strada che si trova su via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità[18].

I delitti del Mostro di Firenze
1 21 agosto 1968
2 14 settembre 1974
3 6 giugno 1981
4 22 ottobre 1981
5 19 giugno 1982
6 9 settembre 1983
7 29 luglio 1984
8 7/8 settembre 1985

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Antonio Lo Bianco e Barbara Locci (21 agosto 1968)

Antonio Lo Bianco e Barbara Locci
19/7/2019 Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti 4/29
Le indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, sospettato di aver commesso il delitto per gelosia. Questo elemento è tuttavia reso piuttosto inverosimile dal fatto che lo stesso Stefano Mele aveva più volte in passato esternato un temperamento decisamente succube nei confronti della moglie (che era soprannominata in paese Ape regina a causa dei suoi molteplici manti), giungendo persino a ospitare in casa sua per diverso tempo un suo amico e amante della moglie, Salvatore Vinci, da taluni indicato come il vero padre del piccolo Natalino. I pettegolezzi del paese insinuavano persino che l'uomo, al mattino, portasse il caffè a letto agli amanti della donna e che accondiscendesse ad avere rapporti sessuali con alcuni di loro, incluso lo stesso Vinci[19]. Il 23 agosto, dopo 12 ore di interrogatorio[20], e dopo aver negato inizialmente un suo coinvolgimento e aver gettato sospetti sui vari amanti della moglie, arriva a confessare il delitto. Durante il sopralluogo effettuato quello stesso giorno, l'uomo risulta totalmente incapace di maneggiare un'arma, e confonde il finestrino dal cui esterno partirono i colpi; tuttavia, dimostrò di conoscere tre particolari che poteva sapere solo avendo assistito alla scena del delitto, ossia il numero di colpi sparati (8), l'indicatore di direzione ancora acceso della vettura e la mancanza della scarpa sinistra dal piede di Lo Bianco[21]. Dopo poche ore Mele ritratta in parte la confessione, e coinvolge come complice Salvatore Vinci. Lo accusa di avergli fornito l'arma e di essere stato da lui accompagnato in auto fino alla via di Castelletti. Dopo aver sparato, dice di aver gettato la pistola nel canale che corre lungo il cimitero, ma malgrado le ricerche l'arma non verrà mai ritrovata.
Nonostante il Vinci abbia portato un alibi confermato da due testimoni, il 24 agosto i due vengono messi a confronto. L'incontro però dura molto poco, perché dopo le prime battute Stefano Mele ritratta ancora e scagiona Salvatore[22]. Non passa mezz'ora che Mele fornisce una nuova versione; questa volta al posto di Salvatore Vinci c'è il fratello Francesco, anch'egli amante della Locci e, a detta di Mele, assai geloso della donna. Francesco Vinci per un certo periodo aveva addirittura convissuto con la Locci a casa di quest'ultima, e per questo veniva denunciato dalla propria moglie per abbandono del tetto coniugale e concubinato. Il giorno successivo, accortosi che la nuova accusa non era sostenuta da riscontri, Stefano punta il dito contro un terzo amante della moglie, Carmelo Cutrona, e racconta che il pomeriggio prima del delitto, recatosi a casa sua in cerca di Barbara, vi trova Lo Bianco (che Mele conosceva col nome di Enrico) e per questo motivo se ne va via molto turbato.
I magistrati intanto stanno nuovamente sentendo il bambino, che dopo aver sostenuto per giorni di non aver sentito, né visto nulla, adesso ammette di aver visto al suo risveglio il padre, e che questo lo avrebbe preso sulle spalle portandolo fino alla casa di Vingone dopo avergli fatto promettere di non dire nulla[23]. È a questo punto che Mele cede confermando la versione del figlio, scagionando le altre persone accusate fino a quel momento. Nonostante le molte incongruenze e l'assenza dell'arma, nel marzo del 1970 Stefano Mele viene condannato dal tribunale di Perugia in via definitiva alla pena di 14 anni di reclusione. La pena è piuttosto mite perché l'uomo viene riconosciuto parzialmente incapace di intendere e di volere. Gli vengono inoltre inflitti 2 anni di reclusione per calunnia contro i fratelli Vinci[24]. Durante il processo, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo Bianco, collega di lavoro di Mele e anch'egli amante della Locci, raccontò che la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con lui dichiarando che "potrebbero spararci mentre siamo in macchina" e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti con gli amanti[25].
Fino al 1982 non si riteneva che di questo delitto fosse responsabile il mostro di Firenze che si pensava infatti avesse iniziato a colpire il 14 settembre 1974; a seguito però del ritrovamento casuale in archivio di alcuni bossoli che, dopo le analisi, risultarono identici a quelli trovati sulle altre scene dei crimini, si dedusse che la pistola usata dal mostro era la stessa usata dall'assassino che aveva ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci nell’estate del 1968[26].
Sei anni dopo, il 14 settembre 1974, Pasquale Gentilcore di 19 anni, impiegato alla Fondiaria Assicurazioni, e Stefania Pettini, 18 anni (la vittima più giovane del serial killer, come Pia Rontini), segretaria d'azienda presso un magazzino di Firenze e attivista del Partito Comunista Italiano, vengono uccisi in una strada sterrata nella frazione di Rabatta, vicino a Borgo San Lorenzo. I due si frequentavano da circa due anni ed erano in procinto di annunciare il loro fidanzamento ufficiale[27]. Pasquale Gentilcore, dopo aver accompagnato la sorella Cristina alla discoteca Teen Club di Borgo San Lorenzo, promettendole di tornare a prenderla al più tardi per la mezzanotte, raggiunge la fidanzata a Pesciola di Vicchio, presso l'abitazione di lei. Da lì, verso le 22:00, i due giovani ripartono per raggiungere gli amici che li aspettano in quello stesso locale per proseguire la serata. Durante il tragitto decidono però di appartarsi in un tratturo sulle sponde della Sieve, da loro già conosciuto e normalmente frequentato dalle coppie della zona[28]. Intorno alle 23:45 (orario appurato sulla base di una testimonianza che ode dei colpi a quell'ora[29]) qualcuno spunta forse dall'attiguo vigneto e comincia a sparare. Pasquale Gentilcore, seduto al posto di guida, viene raggiunto da cinque colpi esplosi da una Beretta calibro .22 Long Rifle, i colpi mortali arrivano dal lato sinistro della 127. La ragazza viene raggiunta da tre colpi che tuttavia non la uccidono; viene trascinata fuori dall'auto ancora viva, resa del tutto incapace di fuggire a causa delle ferite alle gambe provocate dai tre proiettili, e

Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini (14 settembre 1974)
19/7/2019 Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti 5/29

uccisa con tre coltellate profonde allo sterno[30]. Dopo averne disteso il corpo dietro l'auto, l'assassino continua a colpirla per altre 96 volte, colpendo anche il seno e il pube[31][32]. Successivamente l'omicida penetra la vagina della ragazza con un tralcio di vite e questo particolare, anni dopo, farà pensare a un possibile movente esoterico, anche se altri più semplicemente lo interpretano come un ulteriore oltraggio da parte dell'assassino al corpo della vittima; considerato infatti che il luogo del delitto era sito in prossimità di alcune piante di vite, è molto probabile che il gesto non fosse premeditato.
Le sevizie sul corpo di Stefania furono tanto violente da causare, in sede processuale, lo svenimento di un Carabiniere durante l'udienza in cui venivano mostrate le foto del corpo della ragazza[32]. Prima di lasciare il luogo l'omicida colpisce con il coltello anche il corpo esanime di Pasquale con 5 fendenti all'altezza del fegato[32]. Il mattino successivo, i familiari dei due ragazzi, allarmati per il mancato rientro dei figli, si recano a sporgere denuncia di scomparsa presso la stazione dei Carabinieri di Borgo San Lorenzo, ove vengono informati immediatamente del delitto, scoperto un'ora prima da un contadino che abitava e lavorava da quelle parti. In questo caso, così come nei delitti successivi, vengono ritrovati, sparsi sul terreno, gli oggetti contenuti nella borsetta della ragazza (particolare questo che si presenterà in tutti gli omicidi). La borsa e il reggiseno della Pettini verranno invece ritrovati la sera stessa in un luogo poco distante in seguito a una telefonata anonima, mentre il portafogli della ragazza, il suo orologio e alcuni monili di modesto valore a lei appartenenti non saranno più rinvenuti.
Il pomeriggio prima di essere uccisa la Pettini aveva confidato a un'amica di aver fatto uno "strano incontro" con una persona poco piacevole che l'aveva turbata, ma non ebbe tempo di approfondire il fatto. Un amico della Pettini, titolare della scuola guida dove la ragazza stava conseguendo la patente, raccontò ai carabinieri di un pedinamento da parte di uno sconosciuto in auto durante una lezione di guida, il venerdì sera prima del delitto. In ogni caso la Pettini non fu la sola, tra le vittime femminili del maniaco, ad aver lamentato molestie da parte di ignoti poco prima dei delitti[24]. Gli inquirenti esaminarono anche il diario della ragazza ma senza trovarvi alcun'annotazione insolita. Qualche anno dopo i quotidiani tornarono a parlare del caso dopo che la tomba di Stefania (sepolta assieme al fidanzato, nel cimitero di Borgo San Lorenzo) fu manomessa e danneggiata da ignoti.
Dopo altri sette anni, nello stesso anno vengono commessi due duplici omicidi. Il primo nella notte tra il 6 e il 7 giugno 1981 nei pressi di Mosciano di Scandicci. Le vittime sono Giovanni Foggi, 30 anni, dipendente dell'Enel, e la sua ragazza, Carmela De Nuccio, pellettiera di 21 anni, originaria di Nardò, in Provincia di Lecce. I due si conoscevano da pochi mesi ma avevano già programmato di sposarsi. La sera del delitto, un sabato, cenano a casa dei genitori di Carmela, poi, verso le 22:00, escono per una passeggiata e si appartano con l'auto, una Fiat Ritmo color rame, in una stradina sterrata sulle colline di Roveta,
non lontano dalla discoteca Anastasia, e in una zona frequentata abitualmente da coppiette e guardoni.
Giovanni viene raggiunto da tre colpi di pistola esplosi attraverso il finestrino anteriore sinistro, mentre altri cinque proiettili colpiscono Carmela[33]. In fase di sopralluogo verranno però rinvenuti solo cinque bossoli su otto[34], un particolare, quello dei bossoli mancanti, che si ripresenterà ancora nel 1983, nel 1984, e che già si era verificato nel 1968 e nel 1974. La ragazza viene tirata fuori dalla macchina e trascinata in fondo al terrapieno rialzato su cui corre la stradina, dove le verranno recisi i jeans e, per mezzo di tre precisi fendenti, le verrà asportato interamente il pube. Anche in quest'occasione l'omicida, presumibilmente prima di lasciare il luogo del delitto, colpisce con il coltello il corpo esanime del ragazzo. I corpi dei due giovani saranno rinvenuti il mattino dopo. L'uomo è ancora a bordo dell'auto, come nel delitto del 1974. Anche in questa occasione le armi usate sono la Beretta calibro .22 e un coltello. Anche in questo caso si verifica l'accanimento sui cadaveri, soprattutto su quello della donna. Altre analogie con il delitto precedente sono la borsetta della ragazza rovistata e il contenuto gettato a terra senza che
però questa volta risulti mancare nulla. Per il delitto viene inizialmente sospettato l'ex fidanzato della De Nuccio, che in passato aveva avuto screzi con lei, ma il giovane risultò avere un alibi[35].
Vincenzo Spalletti, trentenne, sposato e padre di tre figli, era, ai tempi, un autista di autoambulanze presso l'Ospedale Misericordia di Montelupo Fiorentino, conosciuto in famiglia e presso la Taverna del Diavolo, un ristorante della zona, per essere anche un guardone. Il fenomeno del voyeurismo era peraltro in quei tempi marcatamente diffuso nella provincia fiorentina[24]. La domenica mattina seguente al duplice delitto, rientrato all'alba dopo aver trascorso la serata fuori con un amico guardone, racconterà alla moglie e ad alcuni avventori di un bar da lui frequentato, di aver visto "due morti

Pasquale Gentilcore e Stefania
Pettini

Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio (6 giugno 1981)

Carmela De Nuccio e Giovanni
Foggi
19/7/2019 Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti 6/29

ammazzati"; racconterà inoltre particolari inerenti al delitto (in particolare la mutilazione inflitta alla ragazza), che però non erano ancora stati divulgati dagli organi di stampa e dai mass media. In seguito alle indagini alcune persone testimoniarono di aver visto la sua auto nei pressi del luogo del delitto nella notte del 6 giugno. Spalletti viene quindi arrestato; durante l'interrogatorio afferma di aver letto la notizia sui giornali, cosa impossibile in quanto i giornali che riportavano il fatto non erano stati pubblicati prima di lunedì e, inoltre, mente sull'orario di rientro a casa per la notte del delitto. Viene quindi accusato di falsa testimonianza e incarcerato, ma col sospetto che l'assassino possa essere proprio lui.
Mentre Spalletti si trovava in carcere sua moglie e suo fratello ricevettero diverse telefonate anonime, in cui veniva loro assicurato che il loro congiunto sarebbe stato presto scagionato[24], cosa che in effetti accadrà nell'ottobre dello stesso anno a seguito di un nuovo duplice delitto che scagionerà completamente Spalletti[36][37]. Un conoscente dello Spalletti, anch'egli noto come guardone, sentito dagli inquirenti, asserì di essere stato fermato nei boschi, all'incirca all'epoca del delitto, da un tizio con una divisa che non aveva saputo identificare. L'uomo in divisa gli avrebbe rivolto velate minacce, rimbrottandolo aspramente e mostrandogli - a suo dire - una pistola[24].
Il 22 ottobre 1981, a soli quattro mesi di distanza dal precedente omicidio, a Travalle di Calenzano vicino a Prato, in località Le Bartoline, lungo una strada sterrata che attraversa un campo, a poca distanza da un casolare abbandonato, vengono uccisi Stefano Baldi, di 26 anni, operaio tessile di Calenzano, e Susanna Cambi, commessa di 24 anni. I due, che avrebbero dovuto sposarsi entro pochi mesi, avevano cenato a casa di Stefano, quindi erano usciti a bordo dell'auto del giovane, una Golf nera, e non avevano più fatto ritorno. Alcuni amici del ragazzo riferirono che Baldi inizialmente intendeva restare con loro a
guardare una partita di calcio, ma poi aveva cambiato idea decidendo di trascorrere la serata (vigilia di uno sciopero generale) con la fidanzata. La Cambi viene raggiunta e uccisa da cinque colpi, mentre il ragazzo viene colpito quattro volte. Le cartucce sono di marca Winchester con la lettera "H" sul fondello, sparate dalla stessa Beretta calibro .22 Long Rifle, di cui saranno reperiti solo 7 bossoli dei 9 complessivi che si sarebbero dovuti effettivamente rinvenire. In questo caso l'omicida, per raggiungere la ragazza e compiere l'escissione del pube, è costretto a estrarre dall'auto anche il corpo di Stefano. Il corpo della
ragazza verrà trovato ad una decina di metri dall'auto, in un canaletto, con la maglia sollevata fino al collo. Il seno sinistro presenta gravi ferite inferte con arma bianca. Anche in questo caso verranno ritrovati gli oggetti contenuti nella borsetta della ragazza sparsi nelle zone circostanti il luogo del delitto. Il corpo di Susanna Cambi presenta ferite da arma da taglio, almeno quattro, di cui tre alla schiena. Il giorno successivo al delitto, prima del rinvenimento dei corpi, un uomo telefonò alla zia di Susanna chiedendo di parlare con la madre della giovane che in quel periodo era ospite con le due figlie presso la sorella. La voce all'altro capo del telefono è stata descritta dalla zia della Cambi come "chiara, distinta e priva di inflessioni dialettali". A causa di un guasto sulla linea, tuttavia, la comunicazione venne interrotta subito. Si tratta di un particolare decisamente misterioso, considerato che il numero di telefono, relativo a un indirizzo nuovo, era provvisorio e quindi nessuno avrebbe dovuto conoscerlo[24]. Secondo quanto sostenuto dall'avvocato Nino Filastò, inoltre, poco prima del delitto Susanna
Cambi avrebbe fatto capire alla madre di essere pedinata da qualcuno. In una circostanza, mentre guidava l'auto in compagnia della madre, aveva rischiato di provocare un incidente spiegandole che "un tale, il solito" la stava seguendo e che era sua intenzione evitare di incontrarlo.
La notte del 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli vengono uccisi Paolo Mainardi, meccanico di 22 anni, e Antonella Migliorini di 19, dipendente di una ditta di confezioni. I due giovani, fidanzati da molti anni e soprannominati dagli amici Vinavil perché inseparabili, erano appartati a bordo di una piccola Fiat 147, in uno slargo presente sulla Strada Provinciale Virginio Nuova dopo aver trascorso la serata a cena con dei parenti. Nelle ultime settimane Antonella aveva confidato ad amiche e colleghe di aver paura del maniaco delle coppiette (il termine Mostro di Firenze all'epoca non era stato ancora coniato) e che avrebbe evitato di appartarsi in luoghi isolati col fidanzato.
L'assassino sopraggiunge favorito dall'oscurità ed esplode alcuni colpi verso la coppia; sul luogo del delitto verranno messi a reperto nove bossoli di calibro .22 sempre con la lettera "H" punzonata sul fondello; Paolo viene solo ferito e riesce a mettere in moto l'auto e a inserire la retromarcia. Tuttavia non è in grado di controllare l'auto che attraversa la strada e resta poi bloccata nella proda sul lato opposto. A questo punto l'assassino spara contro i fari anteriori dell'auto e colpisce a morte i due giovani. Secondo la versione tuttora condivisa dai più e ammessa al processo, l'assassino in seguito
sfilerà le chiavi dal quadro d'accensione della vettura e le getterà lontano, presumibilmente in segno di spregio. Esiste in verità un'altra ipotesi che stando alla testimonianza di Allegranti (l'addetto del

Stefano Baldi e Susanna Cambi (22 ottobre 1981)

Stefano Baldi e Susanna Cambi

Paolo Mainardi e Antonella Migliorini (19 giugno 1982)

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pronto soccorso della Misericordia che per primo estrasse il corpo dei ragazzi dall'auto) il ragazzo Paolo Mainardi si trovasse anch'egli, come la ragazza, posizionato nel sedile posteriore della Fiat 147. Da qui l'ipotesi che non fu il ragazzo a spostare l'auto e a finire incastrato nel fossetto bensì invece l'aggressore stesso, a seguito del concitato tentativo di allontanarsi quanto prima dal luogo dell'omicidio. In ogni caso, la corporatura robusta di entrambi i giovani (il Mainardi pesava più di 120 kg ed era alto quasi due metri) avrebbe reso difficile all'assassino estrarli dall'auto rapidamente, soprattutto in una zona come quella dove avvenne il delitto. Questo delitto si differenzia dai precedenti in quanto il luogo in cui avviene l'aggressione non è appartato, a pochi chilometri di distanza, nel paese di Cerbaia è in corso la festa del Santo patrono e il traffico di auto lungo la strada provinciale è ridotto ma costante e inoltre l'omicida, per la prima volta, non esegue le escissioni dei feticci né infierisce sui cadaveri, probabilmente a causa dei rischi che questa operazione avrebbe comportato, considerato che la macchina era
visibilmente disposta in modo innaturale sulla strada.
Il delitto sarà infatti scoperto pochissimo dopo dagli occupanti una vettura sopraggiunta nel frattempo. Antonella è morta, Paolo respira ancora e viene trasportato al vicino ospedale di Empoli, dove muore il mattino seguente senza riprendere conoscenza. In quest'occasione il giudice Silvia Della Monica, sperando di indurre l'assassino in errore, convocò in Procura i cronisti che si occupavano del caso e chiese loro di scrivere sui giornali che Paolo Mainardi, prima di morire, aveva rivelato importanti informazioni utili alla ricostruzione dell'identità dell'omicida, ma tale trucco non portò ad alcun risultato positivo.
Sarà inoltre a seguito di questo delitto che il maresciallo Fiori, 15 anni prima in servizio a Signa, ricorderà del delitto avvenuto nell'estate del 1968, e permetterà la riapertura del fascicolo in cui verranno ritrovati i bossoli repertati quell'anno; sarà così possibile comparare i bossoli e stabilire che a sparare nel 1968 era stata la stessa arma utilizzata nel 1982. Anche questo evento non è privo di dettagli inconsueti in quanto, per legge, gli elementi raccolti nel corso di un processo devono essere distrutti a sentenza avvenuta. Va tuttavia rilevato che la pratica non è generalmente seguita nel caso in cui l'arma del delitto non sia stata ritrovata, per l'ovvia necessità di lasciare il campo a successive verifiche, cosa che si è in effetti verificata con i bossoli repertati a Signa nel 1968.
Il 9 settembre 1983, a Giogoli, vengono assassinati due turisti tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, entrambi di 24 anni, studenti presso l'Università di Münster che al momento dell'aggressione si trovano a bordo del loro furgone Volkswagen T1 con l'autoradio accesa. I ragazzi vengono raggiunti e uccisi da sette proiettili, sparati con una certa precisione attraverso la carrozzeria del furgone, ma verranno messi a referto solo 4 bossoli dei 7 che si sarebbero dovuti effettivamente rinvenire. Le indagini successive al delitto permetteranno di stabilire che i colpi erano stati sparati da un'altezza di circa un metro e 30 centimetri da terra, il che fa supporre che l'assassino fosse alto almeno 1 metro e 80, o anche di più. L'ipotesi dell'altezza del killer superiore alla media non è però condivisa da tutti, in primis da Perugini e da altri inquirenti[12].
L'assassino fredda dapprima Meyer con tre colpi in rapidissima successione, mentre Rüsch tenta inutilmente la fuga ma viene poi colpito anch'egli da quattro proiettili, di cui uno al cervello, accasciandosi sul fondo dell'automezzo. Una volta uccisi i due giovani, l'assassino sale sul retro del furgone ma, accortosi che le vittime sono entrambe di sesso maschile, si dilegua senza utilizzare armi bianche ed effettuare alcuna escissione sui corpi. In questo caso, l'assassino è stato forse tratto in errore dai capelli lunghi e dalla corporatura esile di Rüsch, probabilmente scambiato per una donna. Il denaro e le macchine fotografiche delle vittime non vennero prelevate, né sembrarono mancare oggetti di valore. Nelle vicinanze del camper furono rinvenute anche alcune riviste pornografiche in lingua italiana a contenuto probabilmente omosessuale, ma non è mai stato appurato se appartenessero ai giovani, né se i due fossero effettivamente fidanzati (o comunque amanti) oppure solamente amici.
Si pensò quindi che il killer, non potendo essere Stefano Mele - detenuto nel periodo in cui il "mostro" aveva continuato a colpire - e neppure Francesco Vinci, potesse invece essere un altro personaggio appartenente alla loro cerchia di frequentazioni e conoscenze. Furono pertanto indiziati e inquisiti Giovanni Mele, fratello di Stefano, e Piero Mucciarini, cognato di Giovanni Mele[38]. Sulla base di nuove rivelazioni di Stefano Mele, che in alcune deposizioni accusò il fratello e il cognato di aver partecipato all'omicidio della moglie[39], e con l'aggravante di alcuni indizi materiali (tra cui un bisturi in possesso di Giovanni Mele), Piero Mucciarini e Giovanni Mele restano per otto mesi detenuti con l'accusa di essere gli autori dei duplici omicidi[39]. I due verranno poi scarcerati, per uscire

Antonella Migliorini e Paolo Mainardi

Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch (9 settembre 1983)

Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe
Rüsch
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definitivamente dall'inchiesta[40], non essendoci a loro carico indizi tali da giustificarne il rinvio a giudizio, e soprattutto essendo i due detenuti in carcere nel periodo in cui fu commesso l'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini[41][42]. Per un certo periodo venne indagato per gli omicidi anche Salvatore Vinci, fratello di Francesco[43][44]. Stefano Mele morì nel 1995 per una crisi cardiaca sopravvenuta a seguito di un intervento chirurgico, mentre risiedeva in uno ospizio per ex detenuti a Ronco all'Adige, presso Verona[45]. Le vittime del penultimo delitto del Mostro di Firenze sono Claudio Stefanacci, studente universitario di 21 anni, e Pia Gilda Rontini di 18 anni, da poco tempo impiegata presso il bar della stazione ferroviaria di Vicchio e majorette nella banda musicale del paese. L'auto dei giovani, una Fiat Panda celeste del ragazzo, è parcheggiata in fondo a una strada sterrata che si diparte dalla strada provinciale Sagginalese, contro il terrapieno di una collina. Quando
vengono aggrediti, i due ragazzi sono seminudi sul sedile posteriore dell'auto. L'omicida spara attraverso il vetro della portiera destra colpendo il ragazzo quattro volte (di cui una alla testa), e due volte la ragazza che aveva tentato la fuga (uno alla schiena e uno alla fronte)[46]. In seguito l'assassino infierisce con diverse coltellate sui corpi dei due ragazzi, colpendo due volte alla gola Pia e una decina di volte Claudio. Alla ragazza vengono asportati il pube e il seno sinistro. Verrà ritrovata con il proprio reggiseno ancora serrato tra le dita della mano destra[46]. La catenina che portava è stata strappata ed è stato sottratto il pendente a forma di croce. In questo caso la borsetta non è stata frugata né manomessa, presumibilmente perché nascosta sotto il sedile del passeggero. La madre del ragazzo, impensierita del ritardo, lo va a cercare dagli amici che, conoscendone le abitudini, vanno a cercarlo dove sapevano che si appartavano in auto, scoprendo così i cadaveri[46]; anche la madre della ragazza era preoccupata per l'insolito ritardo della figlia che al momento di uscire di casa, poco dopo le 21, aveva promesso di rientrare entro un'ora essendo stanca per aver lavorato tutto il giorno[24]. Anche in questo caso pare che la vittima femminile avesse subito molestie da parte di ignoti nei giorni precedenti al delitto. Un'amica di Pia, conosciuta durante un soggiorno di studio in Danimarca e che in seguito aveva intrattenuto con lei relazioni di corrispondenza, riferì tempo dopo di aver ricevuto una telefonata dalla giovane, pochissimo tempo prima del delitto, in cui Pia le riferiva che nel bar dove lavorava "c'erano persone poco piacevoli assieme alle quali si sentiva molto insicura"[47]. Tale fatto sembra peraltro avvalorato da un riscontro raccolto in una fase successiva al delitto; Bardazzi, gestore di una tavola calda in località San Piero a Sieve, aveva dichiarato di
riconoscere nei due fidanzati uccisi una coppia che nel pomeriggio del 29 luglio 1984, poche ore prima dell'omicidio, si era intrattenuta presso il suo locale. Subito dopo loro, secondo il teste, era arrivato un "signore distinto", alto, corpulento, sguardo intenso, in giacca e cravatta, dai capelli rossicci, che aveva ordinato una birra e si era seduto all'esterno del locale, senza staccare gli occhi dalla ragazza. Non appena i giovani avevano terminato di mangiare e si erano avvicinati alla cassa, l'uomo aveva bevuto d'un fiato la birra e si era accodato a loro. Invitato a partecipare ai funerali delle vittime, tuttavia, non lo riconobbe tra i presenti[24]. Secondo la testimonianza resa nel 2017 da Giampiero Vigilanti, Pia Rontini sarebbe stata uccisa "per un rifiuto"[48]. Nel processo a Pacciani il teste Bardazzi venne ascoltato dal PM Canessa, che mise in luce alcune incongruenze nella sua testimonianza; dando per scontata la sincera volontà di collaborare da parte di Bardazzi non venne però considerata
credibile la sua deposizione, in quanto non coincidevano innanzitutto i tempi di spostamento della coppia dei ragazzi rispetto al tragitto casa-locale Bardazzi-luogo di lavoro di Pia Rontini, e in più lo stesso Bardazzi al processo non si dimostrò così certo di riconoscere i ragazzi e la loro auto parcheggiata davanti al locale. Nel marzo del 1994 le croci piantate sul luogo del delitto dal padre di Pia, Renzo Rontini, in memoria dei due giovani assassinati sono state danneggiate da ignoti[49]; Renzo Rontini si è impegnato profondamente per la ricerca della verità sul caso fino alla sua morte, avvenuta per un attacco cardiaco nel dicembre 1998[50].
L'ultimo duplice delitto (quello su cui si hanno più particolari e riscontri[51]) avviene nella campagna di San Casciano Val di Pesa, in frazione Scopeti, all'interno di una piazzola attigua a un cimitero e attorniata da cipressi, in cui erano solite appartarsi le coppie[52]. Le vittime sono due giovani francesi, Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne di origini georgiane, e la trentaseienne Nadine Mauriot (la vittima più anziana del mostro), titolare di un negozio di calzature, madre di due bambine piccole recentemente separata dal marito, entrambi provenienti da Audincourt, una cittadina dell'est della Francia.

Claudio Stefanacci e Pia Rontini (29 luglio 1984)

Claudio Stefanacci e Pia Rontini

Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot (7/8 settembre 1985)

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Le vittime sono accampate in una piccola tenda a poca distanza dalla strada. L'omicidio è stato fatto risalire da taluni alla notte di domenica 8 settembre 1985, da altri a quella tra sabato 7 settembre e domenica 8 settembre 1985, considerazione motivata con la presenza sui cadaveri delle vittime di larve di mosca che necessitano di almeno 25 ore di tempo per svilupparsi[24] e dalle condizioni tanatologiche dei corpi riesaminate da esperti molti anni dopo, come è scientificamente riportato da una perizia del professor Francesco Introna[53] e, successivamente, da un reportage televisivo di Paolo Cochi[54][55]. Altro elemento fu il fatto che Nadine Mauriot aveva avvertito i parenti in Francia che sarebbe rientrata dalla vacanza al più tardi la domenica sera per riuscire ad accompagnare al primo giorno di scuola le figlie il lunedì successivo, e riaprire nel contempo il negozio di sua proprietà[56]. Una coppia che si era appartata nella piazzola del delitto nelle prime ore del pomeriggio di domenica 8 settembre 1985 riferì di aver notato la tenda delle vittime, all'interno della quale sembrava esservi una persona distesa; riferirono anche di un nugolo di mosche e di cattivo odore nella zona, tanto che proprio per tali motivi i due ragazzi decisero di andarsene da quel luogo[24]. Le modalità dell'aggressione sono simili a quelle precedentemente messe in pratica dall'omicida, eccettuato il fatto che, in questo caso, le vittime non si trovavano in auto ma in una tenda piantata vicino alla propria auto: l'assassino, dopo aver reciso con un coltello il telo esterno della tenda sulla parte posteriore, si sposta verso l'ingresso della tenda e spara. Nadine muore subito; Jean-Michel, ferito non mortalmente, riesce a uscire dalla tenda e a fuggire verso il bosco, ma viene raggiunto dall'omicida che lo finisce a coltellate e poi ne occulta il corpo, cercando di nasconderlo tra alcuni rifiuti in un posto poco distante dalla tenda[57]. Dopo averlo estratto dalla tenda per effettuare le mutilazioni sul pube e sul seno sinistro, anche il cadavere della donna viene in qualche modo occultato e risistemato all'interno della tenda in modo che non sia subito visibile. Il modus operandi particolare attuato dall'omicida in quest'ultimo delitto lascia presupporre che l'assassino avesse l'intento di ritardare il più possibile la scoperta dei corpi. Un brandello del seno della ragazza viene spedito alla Procura della Repubblica di Firenze in una busta anonima con l'indirizzo composto da lettere di giornali ritagliate, indirizzata a Silvia Della Monica, PM incaricato delle indagini sul killer[58]. La scoperta dei corpi avverrà nel tardo pomeriggio di lunedì grazie a un
cercatore di funghi, appena due ore prima che la lettera giunga in Procura, vanificando così il possibile perfido piano dell'omicida, che probabilmente voleva annunciare agli inquirenti l'avvenuto ultimo duplice delitto attraverso la sua stessa macabra missiva. Poche settimane dopo, il 2 ottobre, giunsero in Procura tre buste anonime indirizzate ai tre sostituti procuratori Pier Luigi Vigna, Paolo Canessa e Francesco Fleury, contenenti la fotocopia di un articolo de La Nazione, una cartuccia marca Winchester calibro .22 serie "H" e un foglietto di carta bianco piegato in due con scritto «Uno a testa vi basta». Gli esami biologici evidenziarono che sui lembi delle tre buste c'erano tracce di saliva che diedero esito positivo di appartenenza a soggetto con gruppo sanguigno A. Non esiste però alcuna certezza che questo messaggio sia stato inviato dall'assassino,
poiché esso non conteneva alcuna prova inequivocabile della provenienza da parte del responsabile e non di un mitomane. Il brandello di seno spedito al PM rimane l'unico "messaggio" inequivocabilmente inviato dal killer agli inquirenti[59].
Il 3 dicembre 2018 viene rinvenuta una nuova ogiva di proiettile in un cuscino della tenda da campeggio dei due giovani francesi 33 anni dopo l'omicidio, che consente agli inquirenti di acquisire nuove informazioni e smentire o confermare le molteplici teorie sui possibili responsabili[60][61][62]. Il primo omicidio della serie, quello del 1968, si riteneva fosse stato commesso dal marito della vittima, Stefano Mele, il quale, anche se fra alcune contraddizioni, fu reo confesso del duplice omicidio e
venne condannato. Nel 1982, quando ancora si era convinti che il primo delitto della serie fosse quello del 14 settembre 1974, vennero ritrovati nell'archivio del tribunale di Firenze, alcuni bossoli che risultarono alle analisi dello stesso usato dal Mostro e quindi si dedusse che la pistola usata da questi era la stessa usata per compiere gli omicidi del 1968. Grazie a questa scoperta, avvenuta subito dopo l’omicidio del 1982, le indagini si indirizzarono lungo la "pista sarda".[26] Il ritrovamento dei bossoli del 1968 spinse gli inquirenti ad aprire un’inchiesta che nel corso degli anni ottanta rappresentò il principale filone di indagine.[26] Il primo duplice omicidio attribuito al mostro era quindi quello del 1968, maturato nell'ambiente degli immigrati sardi in Toscana. Il delitto del 1968, che aveva già un movente e un colpevole reo confesso che dopo aver confessato, aveva però ritrattato, accusando alcuni amanti della moglie, tutti di origine sarda; successivamente il marito cambiò nuovamente versione

Jean-Michel Kraveichvili e Nadine
Mauriot

Indagini
"Pista sarda"

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confessando l'omicidio; inoltre la pistola non era mai stata ritrovata.[26] Successivamente al delitto del 1982, grazie a una comunicazione anonima che aveva portato gli inquirenti a collegare i delitti del 1974, 1981 e 1982 a quello avvenuto nel 1968 grazie ai bossoli che risultarono sparati dalla medesima pistola, le indagini si rivolgeranno nuovamente verso Francesco Vinci, già chiamato in causa anni prima da Stefano Mele che era stato riconosciuto colpevole dell'omicidio del 1968.[63][64][65] Gli investigatori interrogarono Mele che tornò ad accusare Francesco Vinci che nell'agosto 1982 era in carcere per maltrattamenti alla moglie - Vinci era stato a suo tempo amante della moglie di Mele e aveva addirittura abbandonato la famiglia per vivere con la donna, venendo denunciato da questa, per abbandono del tetto coniugale e concubinato[66] e venne pertanto posto in stato di fermo con l'imputazione di maltrattamenti al coniuge[67] - e mentre è in carcere, due mesi dopo venne anche accusato
di essere il “mostro” ma poi avvenne un nuovo omicidio, quello del 1983, e venne quindi scagionato dall'accusa[68];[64] anni dopo fu trovato assassinato, nel 1993,[64] insieme a un amico, Angelo Vargiu, in una pineta nei pressi di Chianni; i loro corpi, incaprettati, erano stati rinchiusi nel bagagliaio di una Volvo data alle fiamme; si ipotizzò un collegamento con la vicenda del "mostro", ipotesi però quasi subito scartata[69]; più probabilmente, date anche le modalità del delitto, era da ritenersi una vendetta nata in ambienti malavitosi sardi attorno ai quali pare che Vinci gravitasse. Il caso è rimasto sostanzialmente insoluto.[70] Il giornalista Mario Spezi scoprì che non era rimasta traccia dell'informazione anonima che, nell'estate del 1982, dopo l’omicidio, aveva suggerito agli inquirenti il collegamento tra i delitti del mostro e quello del 1968, per il quale era già stato condannato il marito della vittima.[65] L'inchiesta si chiuse nel 1989 con un nulla di fatto.[26]
Dopo l'omicidio del 1985 (l'ultimo della serie) le indagini proseguirono ma, fino al 1991, non ci furono sviluppi significativi. La SAM (Squadra Anti-Mostro), il pool di forze dell'ordine che indagava esclusivamente sugli omicidi del mostro dal 1984, era capeggiata da Ruggero Perugini. Pietro Pacciani diventò il primo sospettato nel 1991, mentre questi si trovava in carcere per la condanna per stupro nei confronti delle sue due figlie; anche una lettera anonima risalente al 1985 invitava gli inquirenti a indagare su di lui.[71] Il pool di Perugini, oltre alla lettera anonima, aveva il nome di Pacciani schedato nel computer fra le molte persone aventi le caratteristiche per essere l'assassino seriale.[72]
Nato ad Ampinana il 7 gennaio 1925, ex partigiano[73] soprannominato il Vampa per via del suo carattere irascibile e per i suoi trascorsi giovanili come mangiafuoco per le fiere paesane (che una volta gli costarono un'ustione al viso), Pacciani è stato descritto come un uomo collerico, depravato e brutale indipendentemente dalle accuse riguardanti i delitti del Mostro di Firenze. Nel 1951, a 26 anni, Pacciani sorprese l'allora fidanzata, Miranda Bugli (appena quindicenne), in atteggiamenti intimi con un altro uomo, tale Severino Bonini di 41 anni; preso dalla gelosia, uccise a coltellate il rivale costringendo poi la ragazza ad avere un rapporto sessuale accanto al cadavere. Arrestato e processato, dichiarerà d'essere stato accecato dal furore avendo visto la fidanzata denudarsi il seno sinistro[74] (lo stesso che negli ultimi due delitti venne asportato alle vittime femminili del pluriomicida). Per questo omicidio, Pacciani viene condannato a 13 anni di carcere che sconta interamente. La storia fece scalpore in Toscana, tanto da essere raccontata dai cantastorie. L'analogia di questo delitto con quelli del "mostro" sarà l'intuizione e l'indizio principe che porterà gli inquirenti a indagare seriamente su Pacciani.
Gli inquirenti si convincono, accumulando indizi, che Pacciani sia il serial killer con la tesi che ucciderebbe le coppie per rivivere, da "vincitore", il delitto del 1951, accanendosi particolarmente sulla donna che simboleggia l'ex-fidanzata che l'ha tradito.[75] Gli indizi erano vari: Pacciani scriveva la parola Repubblica con una sola B (come scritto nella busta col lembo di seno inviata dal killer nel 1985[76]), possedeva giornali e riviste che parlavano dei delitti del Mostro di Firenze e foto con pubi segnati a matita[77] ed aveva scritto su un foglio un numero di targa di un'auto appartenente a una coppia che si appartava nella zona degli Scopeti, luogo del delitto del settembre 1985.[78] Inoltre Pacciani aveva legami (alcuni espliciti, altri più forzati) con tutti i luoghi dove avvennero gli otto duplici omicidi; aveva vissuto e lavorato nelle due aree dove il "mostro" aveva colpito più spesso: il Mugello e la Val di Pesa; aveva un ipotetico legame anche con Signa (poiché nel 1968 vi risiedeva l'ex fidanzata Miranda Bugli, che in seguito visse anche a Scandicci[79]), e Calenzano (poiché là viveva l'amico Giovanni Faggi[80]). Tuttavia, ciò che poteva avere teoricamente valenza probatoria, erano soltanto tre oggetti detenuti da Pacciani: una cartuccia trovata in giardino (se realmente fosse stata inserita nell'arma del killer[81]), un blocco da disegno e un portasapone (se realmente fossero appartenuti alle vittime del Mostro di Firenze del 1983).[82] Era una persona sessualmente perversa e violenta, anche dopo l'omicidio del 1951, non soltanto nei confronti della famiglia, come quando prese a calci e colpi di pala un guardiacaccia che finì ricoverato per 26 giorni in ospedale[83]. Pacciani, oltre a definirsi totalmente estraneo ai delitti, voleva dare di sé anche l'immagine dell'agnelluccio e
del lavoratore della terra agricola (come lui stesso amava definirsi), cioè l'immagine della persona buona e semplice, nonostante al suo paese tutti lo conoscessero invece come un uomo assai violento, prepotente e litigioso e tanti suoi compaesani avessero molta paura di lui e si guardavano dal frequentarlo.[84] L'opinione pubblica fu sostanzialmente divisa in due sulla sua colpevolezza riguardo ai delitti.[85] Ciò che è biograficamente certo, al di là delle varie teorie sull'identità del killer, è che Pacciani era un personaggio alquanto particolare: bugiardo cronico, poeta e pittore autodidatta per

L'ipotesi Pacciani

Pietro Pacciani nella
prima metà degli
anni ottanta

19/7/2019 Mostro di Firenze - Wikipedia
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hobby, cimentatosi in mille mestieri.[86] La sua indole violenta si riversò negli anni sulla moglie, Angiolina Manni, una donna semi-inferma di mente (bastonata e costretta a rapporti sessuali), e sulle loro due figlie, Rosanna e Graziella,[87] tenute segregate in casa, nutrite con cibo per cani, picchiate, violentate con falli artificiali e zucchine, costrette a visionare foto pornografiche del padre ripresosi in pose oscene; le due figlie se ne andarono di casa non appena diventarono maggiorenni, rompendo definitivamente i rapporti con il padre, e poco dopo aver lasciato l'abitazione, lo denunciarono per stupro (accusa per cui Pacciani è stato condannato in via definitiva, restando in carcere dal 1987 al 1991).[74]
Pacciani venne arrestato con l'accusa di essere l'omicida delle otto coppie il 17 gennaio 1993. Il 19 aprile 1994, con il collegio difensivo composto dagli avvocati Piero Fioravanti e Rosario Bevacqua, iniziò il processo di primo grado, presieduto da Enrico Ognibene, con l'accusa rappresentata dal sostituto procuratore Paolo Canessa, processo che rivela anche le violenze familiari commesse dal contadino,[6] e che si conclude il 1º novembre 1994 con la condanna dell'imputato all'ergastolo da parte del tribunale di Firenze con l'accusa di essere il responsabile di quattordici dei sedici omicidi per cui era imputato (venne ritenuto non colpevole del primo duplice omicidio del 1968).[88] Verrà però ritenuto innocente, quindici mesi più tardi, nel secondo grado di giudizio.[89] Infatti, il 13 febbraio 1996 Pacciani (in carcere da 1.100 giorni), nel cui collegio difensivo si era nel frattempo aggiunto anche il famoso avvocato Nino Marazzita, è assolto dalla Corte d'appello di Firenze per non aver commesso il fatto e viene dunque scarcerato.[89][90] Il magistrato presidente della corte d'assise d'appello, Francesco Ferri, critica aspramente l'impianto accusatorio contro Pacciani (mettendo poi, nero su bianco, tutte le critiche all'indagine in un libro[91]); l'assoluzione viene chiesta anche dal PM del processo d'appello, Piero Tony.[92] Successivamente però, il 12 dicembre 1996, la Cassazione annulla l'assoluzione e dispone un nuovo processo d'appello,[93] che non verrà mai celebrato a causa della morte di Pacciani, il 22 febbraio 1998. Il processo d'appello a carico di Pacciani fu giudicato viziato da un errore tecnico, che non consentì di sentire e verbalizzare le testimonianze di quattro persone (i testi Alfa, Beta, Gamma e Delta[94]), tra i quali c'era anche Lotti, che pochi mesi dopo si autoaccuserà di alcuni degli omicidi come complice di Vanni e Pacciani. Per la condanna di Pacciani in primo grado sono stati valutati vari elementi, perlopiù di valore indiziario. Intercettazioni ambientali di violenti rimproveri alla moglie Angiolina (che in sé non provavano niente, ma che indebolirono l'immagine di uomo mite e inoffensivo che Pacciani voleva dare di sé), una cartuccia per pistola (in appello poi giudicata come "priva di valore" in un' "inchiesta inquinata"[95]) compatibile con i bossoli trovati sui luoghi degli omicidi e rinvenuta nell'orto di Pacciani,[96] alcuni oggetti che l'accusa ritenne appartenessero ad alcune delle vittime[6][97][98] oltre alle testimonianze di alcune persone che lo riconobbero nei luoghi degli omicidi perlopiù in veste di guardone.[99][100] Un elemento dapprima trascurato nei processi contro Pacciani fu l'insieme dei grossi movimenti di denaro sul conto bancario dell'agricoltore, cifre forse troppo cospicue all'epoca dei fatti per un semplice contadino quale lui era.[101] Questo denaro venne considerato come indizio del suo coinvolgimento solo nelle inchieste successive alle condanne ai "compagni di merende", quando si ipotizzò che Pacciani e i suoi compari di bevute ricevessero denaro per eseguire gli omicidi su
commissione da parte di mandanti mai identificati.[6][102] La tesi che vuole Pacciani capo-killer mercenario su commissione è incompatibile con quella del processo del 1994, dove Pacciani era accusato di essere un omicida seriale solitario fin dal delitto di Signa del 1968.[103] Solo a metà degli anni novanta, con l'arrivo a capo della Squadra mobile di Firenze di Michele Giuttari le indagini si concentrarono più dettagliatamente anche su alcuni amici di Pacciani coinvolti nella vicenda, Mario Vanni, Giancarlo Lotti, Fernando Pucci e Giovanni Faggi[104][105][106] (quest'ultimo assolto, in tutti e tre i gradi di giudizio, da ogni accusa riguardante gli omicidi[106][107][108][109]). Un altro agricoltore della zona, Giorgio Rea, venne inizialmente sospettato per via dell'amicizia decennale che lo legava a Pacciani, Vanni, Lotti, Pucci e Faggi, ma i sospetti caddero quasi subito nel corso di pochi giorni.[110] A seguito dell'assoluzione di Pacciani nel processo d'appello, la moglie decise di andarsene da casa per non avere rapporti col marito e nel luglio dello stesso anno avviò le pratiche per la separazione. Nel dicembre del 1996 Pacciani viene rinviato a giudizio per sequestro e maltrattamenti ai danni della moglie.[111] In particolare gli inquirenti addebitavano a Pacciani di aver aggredito la moglie nel 1992, al ritorno della stessa da un interrogatorio durante il quale la signora avrebbe rilasciato
dichiarazioni compromettenti per il marito a causa del possesso di un fucile mai denunciato, anche se si trattava di un'arma che non era sicuramente quella usata per i delitti.[111] La reazione di Pacciani fu registrata e ascoltata in diretta dalla polizia che aveva apposto alcune microspie nella casa del contadino.[6]

Processi
Processo a Pacciani

Pacciani a processo, gennaio 1994

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Il 22 febbraio 1998, alla vigilia dell'inizio del secondo processo d'appello, Pacciani venne trovato morto nella sua abitazione di Mercatale con i pantaloni abbassati e il maglione tirato in alto fino al collo e, da un esame tossicologico, venne rivelato che nel sangue vi erano tracce di un farmaco antiasmatico fortemente controindicato per lui (che non soffriva di asma ed era invece affetto da una malattia cardiaca); le circostanze sospette dell'improvvisa morte provocarono ulteriori ombre sulla vicenda che sembrava essersi avviata a una conclusione definitiva.[6][112] Pacciani infatti, dopo la sentenza di assoluzione di secondo grado, era tornato ad abitare da solo nel suo casolare, dove la sera era solito barricarsi in casa, sprangando la porta e tutte le serrande, quasi avesse timore di qualcosa o di qualcuno (così come confermato dalle testimonianze dei vicini).[4] La sera in cui i carabinieri lo trovarono morto nella sua abitazione, la porta e le finestre erano invece completamente spalancate.
Le successive intercettazioni telefoniche, relative al caso Narducci, fecero emergere la possibilità che Pacciani fosse stato ucciso dai membri di una setta satanica-esoterica perché colpevole di averli traditi, magari proprio da coloro che l'avrebbero ingaggiato per i delitti.[4] L'ipotesi che Pacciani non morì per una casualità (teoria che non ebbe poi alcuno sviluppo investigativo significativo), fu criticata da coloro che ricordavano come il Vampa fosse, nel 1998, anziano (aveva 73 anni), pluri-infartuato e sicuramente poco attento alla propria salute per indole naturale.[113] Pacciani fu sepolto nel cimitero di Mercatale in Val di Pesa. I suoi resti mortali vennero esumati il 17 luglio 2013 per essere destinati a una fossa comune.[114]
Uno dei testimoni dell'accusa verso Pacciani fu Giuseppe Bevilacqua, protagonista di un'inchiesta del 2018 della rivista "Tempi"[115] Mario Vanni, nato a San Casciano in Val di Pesa il 23 dicembre 1927, portalettere in pensione, detto Torsolo per il suo fisico esile, è rimasto particolarmente famoso come inventore involontario della locuzione compagni di merende, che i media ricavarono dalla caricatura di una sua espressione. Sentito infatti come testimone al processo contro Pacciani, il postino, alla domanda «Signor Vanni, che lavoro fa lei?» rispose iniziando la sua deposizione in modo inatteso e illogico dicendo «Io sono stato a fa' delle merende co' i' Pacciani no?», suscitando così l'ilarità generale e facendo supporre al PM che l'interrogato fosse stato istruito a dare precise risposte. Più verosimilmente, Vanni fu tratto in inganno dall'espressione "che lavoro fai?", che nel dialetto toscano equivale all'italiano "ma cosa hai combinato?". Il suo continuo, goffo e reticente riferimento a tali merende, oltre a determinarne l'incriminazione, produsse l'ironico modo di dire, usato per indicare persone legate da un rapporto losco o comunque poco onesto.
Vanni viene arrestato in concomitanza con l'assoluzione, poi annullata, di Pietro Pacciani, per concorso in duplice omicidio e vilipendio di cadavere, messo in atto secondo l'accusa proprio assieme a Pacciani.[90][116] Durante lo svolgimento del processo Vanni ha dimostrato un atteggiamento ostile nei confronti dei giudici, dettato in maggior parte dall'ignoranza, dall'abuso di alcol, dalla paura e dalla sua età avanzata, che non gli permetteva forse di comprendere lucidamente lo svolgersi delle udienze. Viene spesso richiamato e allontanato dall'aula, fino ad essere espulso dopo aver minacciato il PM Paolo Canessa con
l'espressione «poi ci sarà il Signore che punirà il signor Canessa co' un malaccio 'nguaribile che gli toccherà patire come un cane» e aver vantato la sua fede politica per Mussolini gridando in aula «Viva il Duce, il lavoro e la libertà! Ritorneremo! Prima o dopo».[6] Tuttavia, il suo avvocato difensore Nino Filastò riuscì in seguito a farlo riammettere in aula.
Vanni fu condannato al carcere a vita. La condanna, per soli quattro degli otto duplici omicidi, è stata resa definitiva nel 2000 dalla Corte di Cassazione. Nel 2004 la pena gli venne sospesa per motivi di salute, in quanto affetto da demenza senile. Vanni trascorse i suoi ultimi cinque anni di vita in una casa di riposo per anziani non autosufficienti a Pelago, in provincia di Firenze. Ricoverato il 12 aprile 2009 nell'ospedale di Ponte a Niccheri morì il giorno dopo, all'età di 81 anni.[117] Le esequie si tennero il 15 aprile nel cimitero di San Casciano in Val di Pesa dove fu poi sepolto, alla presenza della sorella, dei nipoti e di alcuni amici.[118]

Processo ai "compagni di merende"
Mario Vanni

Mario Vanni, colui che peraltro diede
origine all'espressione compagni di
merende, qui agli arresti domiciliari,
24 dicembre 1997.

Giancarlo Lotti
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Giancarlo Lotti, detto Katanga, fu condannato a 30 anni di reclusione per i delitti del Mostro di Firenze; come Mario Vanni era nato anch'egli a San Casciano in Val di Pesa il 16 settembre del 1940. Rimasto orfano di entrambi i genitori in giovane età e isolato dagli altri suoi parenti, era un disoccupato che in precedenza aveva sempre svolto solo piccoli lavori saltuari. Alcolista fin dall'adolescenza e con problemi intellettivi, viveva solamente grazie agli aiuti della locale Caritas, grazie alla quale aveva trovato anche un alloggio dove poter vivere. Lotti rese confessione agli inquirenti[6] costretto dalla testimonianza dell'amico Fernando Pucci, che indicò di aver visto il delitto di Scopeti del 1985 e di essere stato lì condotto da Lotti stesso: «La visibilità non era male perché c'era la luna crescente, quella buona perché nascano i funghi. Appena ci si avvicinò vedemmo due persone tra la macchina che ho detto e la tenda. Una era più bassa e tarchiata e l'altra era più alta. Quello tarchiato aveva in mano una pistola. Quello più alto aveva in mano un coltellone da cucina. Quello tarchiato ci vide e ci disse subito dietro: Vi ammazzo, vi ammazzo, andate via! Noi si girò le spalle e si scappò.
Quando si fu tornati all'altezza della macchina io ero parecchio impaurito. Uno dei due mi parve il Vanni, anzi era sicuramente il Vanni. Quello tarchiato con la pistola, lo riconobbi per il Pacciani.»"
[119]Lotti ammise quindi di essere stato presente al delitto, accusando Pacciani e Vanni. Successivamente, individuato come presente anche a delitto del 1984, incastrato da alcune intercettazioni (in particolare quelle con le ex prostitute Nicoletti e Ghiribelli) si è autoaccusato anche di quel crimine, come dei due precedenti del 1982 e 1983. In particolare nell'omicidio dei due
ragazzi tedeschi del 1983 dove avrebbe sparato.[120] minacciato da Pacciani stesso. Le testimonianze di Lotti, come reo confesso, vennero ritenute decisive in tutti i gradi di processo sui Compagni di Merende, benché l'imputato avesse mantenuto un atteggiamento ambiguo e reticente come risulta dalla sentenza di primo grado: «(...) lo stesso Lotti, di fronte a certi risultati delle indagini che lo inchiodavano alle sue responsabilità, ha cercato soltanto di uscirne col minor danno possibile, ammettendo i fatti e dando indubbiamente un contributo in ordine alla condotta dei suoi complici, però soltanto nell'ambito del chiarimento dei singoli episodi di duplice omicidio, per i quali è stato raggiunto da elementi probatori. Inoltre, si è ben guardato dal fare i nomi di altri personaggi, che pur esistono nella presente vicenda (...)»[121].
Risulta infondata la tesi secondo cui Lotti sarebbe stato un soggetto suggestionabile, ritardato, mitomane e che quindi le sue dichiarazioni fossero per questo motivo non attendibili. Scrive il giudice nella sentenza di Appello, citando le perizie cui l'imputato fu sottoposto: «Vale la pena allora subito ricordare che il detto individuo (il Lotti Giancarlo appunto) sottoposto a perizia da consulenti del Pubblico Ministero - l'incarico venne affidato ai Proff. Ugo Fornari e Marco Lagazzi, medico specialista in psicologia e professore di psicologia giudiziaria presso l’università di Genova il secondo e medico specialista in psichiatria e professore ordinario di psicopatologia forense presso l’università di Torino il primo, nel corso delle indagini preliminari, e stato dichiarato soggetto “lucido, vigile cosciente, perfettamente orientato nel tempo, nello spazio, nei confronti della propria persona e della situazione in esame”. Si legge nel medesimo elaborata che "... il patrimonio intellettivo non appare certo brillante, specie a livello di intelligenza teorico-astratta, ma è caratterizzato da buona abilità di comprensione e di gestione dei problemi pratici e concreti... non si rilevano segni di deterioramento mentale, come, attestato dalla vivacità e non esauribilità della attenzione, dalla modulazione dei pensiero, dalla prontezza e pertinenza delle risposte, dalla capacità di analisi e di critica e dalla stessa reticenze opposta a taluni argomenti...»[122]. Inoltre lo stesso giudice così ha riportato in relazione alla paventata possibilità che Lotti avesse potuto auto-accusarsi per ottenere dei benefici: «il sospetto che questi abbia pensato di risolvere i problemi della sua vita scontando 30 anni di reclusione ma contento di ciò per i vantaggi che la legge riserva ai collaboratori di giustizia,
ebbene tale cosa appare a questo giudice priva di senso perché del tutto indimostrata innanzitutto e contraria al buon senso comune in secondo luogo»[123]. Va detto che la difesa di Mario Vanni (Avv. Nino Filastò) evidenziò alcune incongruenze nella ricostruzione dei delitti fatta da Lotti, non accolti dal giudice. Lotti è stato definito: "persona intrinsecamente credibile non soltanto per quanto attiene i propri comportamenti criminali ma anche per quanto riguarda i delitti commessi dai suoi complici. D'altro canto le sue dichiarazioni accusatorie sono apparse sempre riscontrate in maniera precisa e inconfutabile"[124]. Lotti non ha ottenuto, come richiesto dal suo legale, alcun beneficio come collaboratore di giustizia, non essendo riconosciuto come tale dai giudici. La sua condanna è stata di 26 anni di reclusione. Venne scarcerato il 15 marzo 2002 per gravi motivi di salute e il 30 marzo successivo, all'ospedale San Paolo di Milano, morì a 61 anni per via di un tumore al
fegato, da cui era afflitto da molto tempo, a causa del suo alcolismo decennale.[125] Lotti fu sepolto nel cimitero di San Casciano in Val di Pesa. I suoi resti mortali vennero esumati il mattino del 3 dicembre 2015.
[126]Nato a Montefiridolfi l'8 novembre del 1932[127] era amico dei tre "compagni di merende", con una invalidità civile riconosciuta nel 1983 per oligofrenia, ed è stato un teste decisivo nella vicenda e nelle condanne ai Compagni di Merende. Riguardo alle sue condizioni venne redatta una nuova perizia affidata ai consulenti Lagazzi e Fornero che vennero incaricati di accertare se realmente Pucci fosse affetto da qualche invalidità e così si espressero: "Il patrimonio intellettivo è apparso povero ma non propriamente così deficitario come risulta dalla patologia accertata dalla commissione per gli invalidi civili nel lontano 1983...attenzione vigile e memoria valida senza cenni di cedimento o di rallentamento o di intorpidimento... Il pensiero è poco ricco di contenuti, piuttosto monotono e poco modulato. I nessi logici sono comunque conservati e i contenuti sono sempre risultati pertinenti al contesto in esame. Non disturbi formali o deliranti dell'ideazione...affettivamente è apparso povero

Fernando Pucci

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e lievemente iposintonico ma capace di stabilire un rapporto adeguato con gli esaminatori ...non disturbi a carico del rapporto con la realtà e con gli altri"[128]. Quindi secondo le valutazioni, raccolte dal giudice, non esisteva motivo perché tale soggetto non fosse in grado rendere una testimonianza. Depose contro Pacciani e Vanni come testimone oculare degli ultimi due omicidi (quello del 1984 a Vicchio e quello del 1985 agli Scopeti)[129]: "Per guardare cosa accadeva senza essere notati girammo un po' tra le frasche per arrivare al lato della macchina parcheggiata vicino alla tenda. Poco dopo vedemmo questa scena: uno dei due, quello più alto, cioè il Vanni, andò dietro la parte posteriore della tenda e con quel coltellaccio da cucina che aveva in mano tagliò il tessuto. Ricordo anche il rumore che fece, come di tela strappata. Il gesto che io vidi mi sembrò come fatto dal basso verso l'alto. A questo punto l'uomo uscì dalla tenda, dalla parte anteriore, scappando verso il bosco, cioè dalla parte opposta della strada. L'altro che aveva la pistola, cioè il Pacciani, gli sparò e gli andò dietro mentre quello scappava, ontinuando a sparare"[130]. Le dichiarazioni di Pucci hanno lasciato dei dubbi, il teste è arrivato a parlare per gradi, all'inizio appariva reticente. Inoltre in aula la difesa ha cercato di inficiarne le dichiarazioni, essendo il teste fondamentale nel corroborare le chiamate in correo di Lotti.[131] Fernando Pucci muore il 25 febbraio 2017, all'età di 84 anni.[132] È sepolto nel cimitero di Montefiridolfi, frazione di San Casciano in Val di Pesa.
Le indagini sui delitti del "mostro" e sui compagni di merende hanno successivamente condotto gli inquirenti a ipotizzare l'esistenza di mandanti dei delitti.[133] Tale ipotesi si basa su alcune dichiarazioni del teste e imputato Giancarlo Lotti, il quale dichiarò nel processo che i feticci escissi dai corpi femminili sarebbero stati comprati da un ignoto "dottore"[6], e sul ritrovamento di un possibile simbolo esoterico, una piramide tronca di granito colorato (una rara varietà di una pregevole pietra ornamentale, nota come breccia africana) di circa quindici centimetri, rinvenuta ad alcuni metri dai corpi esanimi dei ragazzi uccisi in occasione del delitto dell'ottobre 1981.[134] Occorre però ricordare che tale oggetto viene spesso usato come fermaporte nelle campagne toscane. Infatti, secondo Spezi era un fermaporte d'uso comune in Toscana.[135]
Altri presunti riscontri di un possibile movente magico-esoterico si sono avuti in occasione dell'ultimo delitto della serie, quello del 1985; pochi giorni prima di essere assassinati le due vittime si erano accampate in zona Calenzano ma erano stati invitati ad andarsene da un guardacaccia, in quanto il campeggio libero non era consentito in quella zona.[6] In seguito lo stesso guardacaccia aveva rinvenuto, poco distante dal luogo in cui i due si erano accampati la prima volta, tre cerchi di pietre, di cui due aperti e uno chiuso, contenenti bacche, pelli di animali bruciate e croci di legno. Secondo il parere di alcuni inquirenti tali cerchi di pietre potrebbero essere ricondotti a pratiche di tipo rituale, da collegarsi con le fasi di individuazione, condanna a morte ed esecuzione materiale della coppia.[6]
Tuttavia l'episodio del guardiacaccia è stato recentemente (quando?) smentito dall'avvocato dei familiari delle vittime, che a tal proposito ha diffuso anche un documento Pdf liberamente consultabile.[136] Infatti non risulterebbe la presenza dei due a Calenzano dagli scontrini che la coppia era solita conservare durante i viaggi; inoltre tutti i possibili avvistamenti della coppia francese meritano una riflessione e il beneficio del dubbio. Questo è dovuto al fatto che la foto della vittima francese che finì sui giornali (cioè quella del passaporto della vittima), mostrava la donna più giovane e con i capelli cortissimi, mentre nel settembre '85 Nadine aveva i capelli lunghi e qualche anno in più. Ciò è stato anche documentato in un programma televisivo.[137]
Le frequentazioni di Pacciani e Vanni durante gli anni degli omicidi alimentarono un filone d'inchiesta su possibili moventi esoterici e riti legati al satanismo alla base dei delitti.[138][139][140] In particolare Pacciani e Vanni frequentavano un tale Salvatore Indovino, sedicente mago e cartomante, presso una cascina situata nelle campagne di San Casciano, dove, a detta di molti, si consumavano orge e riti collegabili all'occultismo.[4] Durante le perquisizioni eseguite dalla Polizia di Stato a casa di Pacciani sono stati trovati almeno tre libri ricollegabili alla magia nera e al satanismo.[4] La cosiddetta pista esoterica si riallaccia anche alle grosse somme di denaro delle quali Pacciani entrò in possesso negli anni dei delitti, da cui nacque l'idea che i compagni di merende agissero per conto di personalità rimaste ignote[141][142] e interessate a ricavare «feticci» dai corpi mutilati.[133] Pacciani, modesto agricoltore, arrivò addirittura a disporre di 157 milioni di lire (corrispondenti, nel 1996, a
117.069,52 euro nel 2018[143]) in contanti e buoni postali fruttiferi, oltre ad aver acquistato un'automobile, due case e ristrutturato completamente la sua abitazione.[4] I controlli eseguiti dalla Polizia di Stato evidenziarono che Pacciani, prima dei delitti attribuibili al Mostro di Firenze, versava in condizioni economicamente modeste e non ereditò beni che potessero giustificare le somme di denaro ritenute (ma non da tutti) troppo cospicue e improvvise per un semplice contadino quale lui era.[4] Anche Mario Vanni arrivò a disporre di cifre importanti, anche se in misura nettamente inferiore a quelle di Pacciani. Chi non crede a Pacciani killer prezzolato da mandanti misteriosi rimasti ignoti, fa notare che il contadino, oltre ad affittare un appartamento, svolgeva molti lavori in nero ed era noto per la sua spilorceria, come sottolinea Giuseppe Alessandri nel libro La leggenda del Vampa. Inoltre il presunto complice Lotti era tutt'altro che ricco visto che negli anni ottanta e novanta trovava
lavoretti e alloggio solo grazie all'aiuto del prete del paese, essendo a tutti gli effetti un disoccupato indigente. Anche Vanni, nonostante le cifre trovate sui suoi conti, è deceduto in una modesta casa di riposo di provincia.[144]

Ipotesi sui presunti mandanti

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Le sentenze che condannano i compagni di merende si basano principalmente sulle tanto discusse testimonianze di Pucci e, soprattutto, di Lotti. Ciò ha impedito l'individuazione di un movente certo, organico e globale, che fosse valido per tutti i delitti. Infatti Lotti, prima di accennare al misterioso "dottore", aveva cambiato più volte versione sui motivi per cui Pacciani e Vanni avessero ucciso. Inizialmente Lotti, nel 1996, dichiarava "che i delitti erano stati atti di rabbia per approcci sessuali che le vittime avrebbero respinto".[145] Invece un anno più tardi, fornì un'altra versione sul movente, affermando che la volontà di Pacciani sarebbe stata quella di uccidere per poi dare da mangiare i «feticci» alle figlie.[146] Il dibattito sull'attendibilità di Lotti rimane aperto nell'opinione pubblica, nonostante costui sia stato decisivo per ottenere sentenze giudiziarie definitive sulla vicenda. Nel 2010 Pier Luigi Vigna, ex procuratore di Firenze occupatosi del caso, si è dichiarato scettico sull'esistenza di un possibile secondo livello di mandanti, a dimostrazione del fatto che le inchieste successive a quelle dei compagni di merende non abbiano avuto sviluppi.[147] Anche Piero Tony, sostituto procuratore generale al processo d'appello contro Pacciani, definì ironicamente aria fritta l'ipotesi dei mandanti.[148]
Francesco Narducci era un medico e professore universitario di Perugia, appartenente ad una delle famiglie perugine più facoltose e in vista, morto nel Lago Trasimeno a 36 anni, il 13 ottobre 1985, poche settimane dopo l'ultimo delitto del Mostro di Firenze. La morte, all'epoca, fu archiviata come incidente e la salma fu tumulata senza procedere ad autopsia, apparendo abbastanza chiara la causa di morte per annegamento. Si è ipotizzato che fosse il responsabile dei delitti (sulla base di una testimonianza, ritrattata, di una domestica che lo avrebbe visto scrivere una confessione in cui chiedeva perdono[149], e in tempi recenti sulla base di una delle controverse "dichiarazioni spontanee" del criminale pluriomicida Angelo Izzo[150]) o, da parte di Michele Giuttari e dell'inchiesta di Perugia, uno dei capi della misteriosa «setta» che avrebbe commissionato gli omicidi.[151]
Il suo coinvolgimento si fonda inizialmente sull'intercettazione telefonica di un gruppo di pregiudicati che avrebbero minacciato una tale «Dora»[4] di farle «fare la stessa fine del "medico ucciso sul Trasimeno"», proprio come Narducci, e sulla base di alcune lettere anonime ricevute dagli investigatori nei mesi successivi, nelle quali veniva collegato il medico agli omicidi.[152] In seguito furono intercettate altre telefonate minacciose rivolte a «Dora»: in una di queste una voce femminile (molto alterata) faceva
riferimento, oltre al presunto omicidio di Narducci, anche all'«omicidio di Pacciani». Secondo la voce al telefono, entrambi gli omicidi sarebbero stati commessi dagli appartenenti a una «setta satanica», perché le vittime sarebbero state colpevoli di averli traditi:[4] la stessa fine, nella telefonata, era minacciata anche a «Dora».[153] Il procedimento per le telefonate intercettate proseguì e portò a una condanna patteggiata. Dichiarazioni di persone informate sui fatti e anomalie negli accertamenti sul cadavere ripescato dalle acque del lago Trasimeno portarono a ipotizzare che il Narducci fosse stato assassinato. Nel 2002 venne riesumata la salma, sulla quale esami autoptici dimostrarono la presenza di lesioni compatibili, secondo il consulente Giovanni Pierucci dell'Università di Pavia, con lo strozzamento; ipotesi avvalorata anche dal rinvenimento di tracce di narcotizzanti nei tessuti.[154] Proprio l'ipotizzato omicidio del medico, legato alla sostituzione del suo cadavere[154][155] con quello di uno sconosciuto in maniera tale da insabbiare le indagini sulle effettive cause della morte nell'autunno del 1985, ha dato luogo all'avvio di un'inchiesta giudiziaria da parte della Procura della Repubblica di Perugia che ha ipotizzato il coinvolgimento di una loggia massonica, alla quale risultava appartenere il padre di Narducci,[156] coinvolta sia nella copertura degli omicidi del mostro che nella sostituzione del cadavere.[157][158] Secondo Ugo Narducci invece, il figlio Francesco si tolse volontariamente la vita dopo che gli era stato diagnosticato un grave problema di salute.[156] All'epoca, però, la versione ufficiale della famiglia fu quella della disgrazia e, del resto, nessuna conferma ha avuto la nuova versione della famiglia Narducci sul suicidio motivato dalla scoperta di una malattia. Nel giugno del 2009, una parte dell'inchiesta relativa alle modalità della morte del medico perugino è stata archiviata dal GIP del capoluogo umbro.[159] Per Mario Spezi e Francesco Calamandrei, indagati insieme ad altri nella vicenda, il GIP ha archiviato a norma dell'art. 125 disp. att. c.p.p., cioè per insufficienza e contraddittorietà degli elementi.[160]
Per quanto riguarda la morte per omicidio di Francesco Narducci, il GIP (Dott.ssa Marina de Robertis), nel procedimento n. 1845/08/21, ha disposto l'archiviazione (accogliendo la stessa richiesta del pubblico ministero, Dott. Giuliano Mignini). Comunque, bisogna sottolineare che il GIP, nell'ordinanza con cui ha disposto l'archiviazione per insufficienza di prove,[161] ha accolto e confermato i risultati delle indagini svolte dalla Procura di Perugia[161], stabilendo altre sì che Narducci era stato ucciso,[161] che il cadavere ripescato il 13 ottobre 1985 non poteva essere quello del medico ma quello di uno sconosciuto,[161] che il Narducci era morto in circostanze di tempo e di luogo completamente diverse tra loro e che non era annegato.[161] Sempre secondo il GIP, Narducci era risultato coinvolto negli ambienti nei quali erano maturati i delitti del Mostro di Firenze.[161] Per quanto riguarda, invece, la gran parte dei reati «minori», tra i quali quelli di soppressione e occultamento di cadavere e
uso illegittimo e soppressione di svariati documenti, il GIP ha riconosciuto la maturata prescrizione in relazione agli indagati principali.[161] L'ordinanza di archiviazione è stata impugnata in Cassazione dal padre e dal fratello del medico morto ma la Corte stessa ha dichiarato inammissibile il ricorso.[161] In particolare il GIP De Robertis, nell'ordinanza con cui ha accolto la richiesta di archiviazione per

Possibili collegamenti con il caso Narducci

Francesco Narducci
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insufficienza di prove, ha affermato che «l'ipotesi del suicidio o dell'evento accidentale è sconfessata dagli elementi emergenti dalle consulenze tecniche».[162] Inoltre nella stessa ordinanza, con riferimento allo scambio del cadavere di Narducci con quello di uno sconosciuto, ha affermato che le testimonianze hanno trovato conferma nelle consulenze di natura antropometrica, «tutte concordi sul punto essenziale: il cadavere dell'uomo di Sant'Arcangelo non poteva essere Narducci»[162] e che «gli interrogativi sulla morte e sull'identità dello sconosciuto rimangono».[162] Riguardo ai collegamenti con i delitti fiorentini, «numerose sono le dichiarazioni di persone informate che hanno riconosciuto Narducci come frequentatore dell'ambiente legato ai delitti.»[162]
Un altro filone dell'inchiesta, relativo al procedimento n. 2782/95/21 e alla ipotizzata associazione per delinquere e a reati più recenti (posti in essere da vari soggetti istituzionali e dalla famiglia, oltre che da giornalisti e finalizzati a nasconderne l'omicidio e le sue cause e a sostituire il cadavere e comunque a depistare le indagini attraverso la riabilitazione di piste ormai sconfessate a livello giudiziario, come quella della cosiddetta "pista sarda") è stato aperto dalla Procura della Repubblica di Perugia.[163] In particolare si contestava, come s'è detto, a membri della famiglia di Narducci e a vari esponenti delle istituzioni, il reato di associazione per delinquere finalizzata all'occultamento di cadavere e altri reati.
I soggetti, secondo l'accusa, avrebbero occultato le reali modalità della morte di Narducci, sostituendo a tal fine il suo cadavere con quello di uno sconosciuto.[163] Inoltre avrebbero impedito l'autopsia sul cadavere, assolutamente di regola in casi simili di sospetto annegamento: l'autopsia non fu eseguita all'epoca, ma soltanto dopo la riapertura delle indagini da parte della Procura di Perugia. Va sottolineato che all'epoca non furono neppure scattate foto del cadavere e le uniche utilizzate nelle indagini erano state effettuate da un fotoreporter del quotidiano "La Nazione". Il tutto sarebbe stato fatto, secondo la Procura, per evitare che emergesse il coinvolgimento del medico nella vicenda criminale fiorentina. Il 20 aprile 2010, all'esito dell'udienza preliminare davanti al Gup di Perugia, il Dr. Micheli ha emesso sentenza di non luogo a procedere, con diverse e articolate formule.[164][165]
Nonostante il termine per il deposito della motivazione da parte del GUP fosse scaduto alla data del 20 luglio 2010, solo il 20 febbraio 2012, dopo un ritardo di quasi due anni, il GUP ha depositato la motivazione di ben 934 pagine. Il Giudice, pur avendo dovuto valutare la possibilità di sviluppo o meno in giudizio dell'impianto accusatorio, ha, in pratica, adottato una decisione di merito, contestando gli accertamenti del 1985, ma anche le risultanze degli accertamenti medico legali del Dipartimento di Medicina Legale dell'Università di Pavia e quelli antropometrici del Reparto investigazioni scientifiche (RIS) di Parma e ha formulato l'ipotesi suicidiaria, escludendo un coinvolgimento del Narducci nei duplici omicidi di coppie attribuiti al "Mostro di Firenze".[166] Narducci si sarebbe ucciso "stordendosi" con la meperidina, un farmaco chiamato anche petidina.
In meno di 15 giorni, il PM storico dell'indagine sul caso Narducci, il Dr. Giuliano Mignini, ha impugnato la sentenza in Cassazione il 7 marzo 2012. Nel ricorso, il PM ha censurato la totale assenza della motivazione richiesta per una sentenza di non luogo a procedere al termine dell'udienza preliminare, sostituita da una ricostruzione del tutto personale e di merito della vicenda, operata dal GUP, in violazione dei limiti che la legge pone ai poteri del Giudice dell'udienza preliminare. Inoltre, sempre secondo il PM Dr. Mignini, la sentenza è affetta da gravi violazioni di norme sostanziali, dalla profonda contraddittorietà della stessa motivazione di merito utilizzata dal GUP e da altrettanto gravi incompatibilità tra diversi capi della stessa sentenza. Anche la vedova del Narducci, Francesca Spagnoli, ha impugnato in cassazione la sentenza Micheli. Per altri procedimenti minori, sempre legati alla vicenda, è stato fissato il giudizio. Ancora altri filoni processuali della vicenda sono sospesi ex
lege in attesa della definizione del procedimento per cui è intervenuto il ricorso in cassazione del PM.
In data 22 marzo 2013 la Terza Sezione della Corte di Cassazione accoglieva quasi completamente il ricorso proposto dal PM Dr. Giuliano Mignini, fatta eccezione per l'ipotesi associativa e annullava la sentenza Micheli, senza rinvio, per i reati che, nel frattempo, erano caduti in prescrizione e con rinvio al GUP di Perugia per le ipotesi di reato non prescritte. Durissima era stata la requisitoria del Procuratore Generale Gaeta che aveva chiesto l'integrale accoglimento del ricorso. Tra le ipotesi di reato che tornarono dinanzi al GUP di Perugia, vi erano anche quelle di «calunnia e tentata calunnia aggravate», contestate a Mario Spezi e ad altri due imputati e che erano costate al giornalista la misura della custodia cautelare in carcere. Nel 2014 il GUP Giangamboni ha definitivamente assolto tutti gli imputati perché il fatto non sussiste e per intervenuta prescrizione, accogliendo la richiesta del procuratore generale facente funzioni Antonella Duchini, archiviando la morte di Narducci come
probabile omicidio commesso da ignoti.[167]
Nella primavera del 1988 Mariella Ciulli, ex moglie di Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano, si recò dai carabinieri e riferì che alcuni anni prima, quando era ancora sposata con l'uomo, aveva trovato in casa una pistola, precisamente una Beretta calibro 22, e nel frigorifero alcuni macabri feticci, a sua detta provenienti dalle vittime femminili del mostro di Firenze. Subito i carabinieri effettuarono una perquisizione in casa di Calamandrei, senza però trovare nulla di insolito.[168] Il 21 marzo 1991, la donna si presentò nuovamente dai carabinieri per fornire nuove informazioni.

Ipotesi Francesco Calamandrei

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Secondo quanto dichiarato, Mariella Ciulli, la notte del 21 agosto 1968, si trovava in auto, assieme al marito, nelle vicinanze di Castelletti di Signa (teatro del duplice omicidio Lo Bianco-Locci), quando entrambi sentirono degli spari. I due videro poi un bambino e lo portarono in salvo. La Ciulli dichiarò inoltre che il marito era solito frequentare brutta gente (tra cui proprio Pacciani, Vanni e Lotti), e che, la notte dell'ultimo omicidio del mostro di Firenze, questi ritornò a casa con ferite al volto; rivelò poi che l'uomo era stato possessore di diverse armi, che poi gettò in mare a Punta Ala, poco dopo il delitto degli Scopeti. I carabinieri perquisirono nuovamente l'abitazione del farmacista, ma anche stavolta non trovarono niente di sospetto o di particolare.[168]
A causa delle sue rivelazioni non supportate da prove, la Ciulli venne ben presto presa per una visionaria, mossa dal desiderio di vendicarsi del marito che l'aveva lasciata per un'altra donna con la quale si era poi risposato, e ripetute successive denunce di questa nei confronti dell'ex marito non vennero nemmeno prese in considerazione dalle forze dell'ordine.[169] Nel 2000, inoltre, venne fatta rinchiudere in una clinica psichiatrica perché, sulla base di alcune perizie, venne riconosciuta come malata di mente.
Il 16 gennaio 2004 il capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, incaricato di ristudiare il caso del mostro, chiese al PM Paolo Canessa il mandato per perquisire la casa dell'ex farmacista. Il 20 gennaio 2004 ebbe luogo la perquisizione e Calamandrei questa volta venne anche notificato un avviso di garanzia.[170] Nel giugno 2005 Calamandrei ricevette anche una informazione di garanzia per concorso nell'omicidio di Francesco Narducci.[168]
Il 21 maggio 2008, al termine di un processo con rito abbreviato iniziato nel settembre 2007, Calamandrei[171][172]. accusato di essere il mandante dei delitti del mostro di Firenze, viene assolto dalle accuse «in quanto il fatto non sussiste».[173][174][175] Sempre nello stesso anno il GUP di Perugia decise di archiviare il fascicolo che vedeva Calamandrei indagato, insieme al giornalista Mario Spezi, nell'inchiesta sulla morte di Francesco Narducci. Francesco Calamandrei è morto il 1º maggio 2012, per un malore che lo colpì nell'androne della propria abitazione, all'età di 71 anni.[176]
L'impatto culturale e mediatico della vicenda del serial killer di Firenze, durata oltre quarant'anni, fu notevole e causò un vasto interessamento dell'opinione pubblica e a un'ampia produzione saggistica che ha analizzato vari aspetti del caso proponendo anche varie ipotesi alternative a quanto accertato in sede giudiziaria.

Ipotesi del serial killer solitario legato alla pista sarda:

Una tesi seguita negli ultimi anni e profilata ad esempio da Mario Spezi nel libro Dolci colline di sangue del 2006, è quella secondo cui il
mostro sarebbe un individuo legato al «clan dei sardi», già indagato marginalmente nelle vicende degli omicidi seriali. La tesi di Spezi muove dalla ricostruzione del primo omicidio del 1968 ritenendo che l'omicidio di Signa venne effettivamente commesso per ragioni sentimentali e «d'onore» da parte di soggetti legati alle famiglie Mele e Vinci, con la pistola Beretta ed i proiettili utilizzati successivamente dal mostro. Tuttavia, il mostro sarebbe del tutto estraneo a tale vicenda essendosi appropriato solo successivamente della pistola e le munizioni per avviare, dal delitto del 1974, la catena seriale di omicidi.[6] Secondo Spezi solo un componente delle famiglie coinvolte nel primo delitto del 1968 avrebbe potuto appropriarsi di pistola e proiettili, essendo del tutto improbabile una casuale cessione, da parte del detentore, di un'arma e di una scatola di proiettili già utilizzati in un omicidio (quello del 1968, e quindi potenzialmente a rischio per lo stesso venditore). Sarebbe secondo Spezi soprattutto da escludere una cessione volontaria a soggetti estranei a quell'ambiente familiare, come pure un casuale e contemporaneo rinvenimento da parte di terzi di pistola e proiettili.[6] Secondo il giornalista gli omicidi sono da attribuire ad una sola persona, un serial killer che avrebbe sempre agito da solo. Va sottolineato che il «Carlo» che, secondo Spezi e il giallista Douglas Preston, sarebbe il Mostro di Firenze, è un uomo nato nel 1959 che, all'epoca del primo delitto, aveva circa quindici anni.[177] Mario Spezi e Douglas Preston affermano che non hanno mai ritenuto «Carlo» responsabile del delitto del 1968 e che lo stesso «Carlo» fu arrestato una prima volta nel settembre 1983 per detenzione di armi (pochi giorni dopo l'omicidio dei due ragazzi tedeschi) e assolto. Finì di nuovo in carcere solo nel 1988, tre anni dopo l'ultimo omicidio del Mostro. Il vero nome di "Carlo" è stato rimosso dalla versione italiana del libro, ma era presente nella prima edizione in lingua inglese e venne anche intervistato dalla televisione americana Dateline NBC.[178][179][180] Mario Spezi è stato arrestato nel 2006 con l'accusa di calunnia contro la persona adombrata nel libro[39][181], commessa a fini di depistaggio delle indagini, proprio in conseguenza della sua propensione per la Pista Sarda, cosa che lo avrebbe portato, secondo
la tesi accusatoria, a creare false prove al fine di portare gli investigatori sulla strada da lui voluta.[182][183][184] Il Tribunale per il Riesame di Perugia, su ricorso dello Spezi, ha annullato l'ordinanza di misura cautelare emessa dal GIP nei suoi confronti sotto il profilo dubitativo sui gravi indizi di colpevolezza sul dolo della calunnia e, sotto il profilo oggettivo, per altra ipotesi di calunnia.
Nell'istruttoria erano caduti, per Spezi, i reati di concorso in omicidio, associazione per delinquere, falso, occultamento di cadavere. Per l'ipotesi della calunnia, il GUP Dr. Paolo Micheli, con sentenza 20 aprile 2010, ha dichiarato il «non luogo a procedere» contro Spezi, con formula dubitativa sul dolo e solo il 20 febbraio 2012 il GUP ha depositato ben 934 pagine di motivazione della sentenza, un fatto assolutamente insolito per una sentenza di «non luogo a procedere»[185][186]. In data 22 marzo 2013, come si è visto, la sentenza del GUP Micheli è stata pressoché integralmente annullata dalla Corte di Cassazione. Per la calunnia, mentre gli altri imputati del caso Narducci furono assolti[187], per lui venne dichiarata la prescrizione del fatto dal GUP Carla Giangamboni, in accoglimento della richiesta del procuratore capo.[167] Fino alla sua morte per malattia nel 2016, Spezi ha continuato a sostenere le sue ipotesi.
Ipotesi del serial killer in divisa: Un'altra ipotesi di rilievo, contrastante e critica con le sentenze giudiziarie, è quella espressa dell'avvocato fiorentino Nino Filastò nel suo libro Storia delle Merende Infami.[188] Il libro, pubblicato da Maschietto Editore nel 2005, è una sorta di contro-inchiesta sui delitti delle coppiette. Lo scrittore-avvocato, che investiga sul mostro dai primi anni ottanta, oltre ad essere stato il legale di Mario Vanni, tenta di dimostrare l'innocenza dei compagni di merende con un'analisi globale su tutta la vicenda. Nel suo libro si mettono in luce le

Ipotesi alternative alle sentenze giudiziarie

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incongruenze del pentito Giancarlo Lotti e si criticano le modalità d'indagine. L'avvocato paragona la figura del Lotti a quella di Stefano Mele: entrambi sono intellettualmente molto modesti e suggestionabili, ma diventano a causa di un'errata (secondo Filastò) pista investigativa, personaggi di primo piano in due differenti periodi delle indagini. Filastò aveva già scritto, a metà anni novanta, un saggio sull'argomento chiamato Pacciani Innocente.[189] Nell'ipotesi di Filastò il mostro è un serial killer di tipo lust murder affetto da una grave patologia sessuale, attivo perlomeno dal 1968 al 1993 (omicidi Francesco Vinci - Milva Malatesta) e mai entrato nelle indagini.[190] Alcuni elementi, come per esempio il libretto di circolazione trovato fuori posto nella macchina di una coppietta uccisa, oppure la capacità del mostro di avvicinarsi agevolmente alle vetture, portano l'avvocato ad inquadrare il serial killer come un «uomo in divisa». Qualcuno che potrebbe essere capace di interagire con le indagini e, addirittura, conoscere e anticipare alcune mosse degli inquirenti. Secondo il legale, la storia del mostro potrebbe somigliare molto a quella di Caryl Chessman, che prima di venire giustiziato dichiarò: «Non ero io che fingevo di essere un poliziotto, era un poliziotto vero che abbagliava le future vittime con il fanale rosso della polizia messo sulla sua auto».[191] Radicale è anche la critica di Filastò verso le teorie «esoteriche» e «di gruppo» sulla vicenda, ritenute antistoriche e criminologicamente incompatibili con delitti seriali di stampo maniacale. Infatti Filastò considera assurda e grottesca l'ipotesi di una setta o un'organizzazione che usava i cosiddetti compagni di merende come manovalanza, e in Storia delle merende infami viene fatta una comparazione storica tra la caccia alle streghe della Santa Inquisizione e alcune scelte investigative intraprese nel caso.[192]
Sulla vicenda si riscontrano anche ulteriori ipotesi, più o meno discordanti con i verdetti dei processi. Il caso del Mostro è un evento e un'indagine dalla durata pressoché quarantennale (dal 1968 ad oggi, con i primi quattro omicidi ancora ufficialmente insoluti); è inevitabile dunque una grande varietà di opinioni. Oltre alle più celebri ipotesi "non ufficiali" di Spezi o Filastò, si registrano altre teorie su chi ha commesso i cosiddetti «delitti delle coppiette». Secondo il criminologo Francesco Bruno, il mostro sarebbe un uomo mai individuato. Un assassino seriale d'intelligenza superiore alla media, mosso da delirio religioso e suggestioni moralistiche, che ha agito sempre da solo sin dal 1968.[193]
Invece Francesco Ferri, giudice che assolse Pacciani nel processo d'appello ed autore del polemico Il caso Pacciani. Storia di una colonna infame?,[194] si riallaccia all'idea originaria dell'ignoto serial killer lust murder, ipotizzato dal profilo dell'FBI e dalla perizia italiana di De Fazio; l'assassino sarebbe cioè una persona probabilmente affetta da impotenza o iposessuata. Restando ancora nella gamma d'ipotesi dell'autore unico, Ruggero Perugini (ex capo SAM) ha recentemente ribadito, in un convegno del 2010, la sua personale convinzione secondo cui il mostro sarebbe stato il solo serial killer Pietro Pacciani «senza compagni di merende né di bevute».[195][196] L'ex dirigente della Squadra Anti-Mostro, che dopo l'indagine sui delitti delle coppiette ha lavorato negli Stati Uniti nel ruolo di ufficiale di collegamento fra il Federal Bureau of Investigation e la Dia,[197] ha sempre sostenuto la tesi secondo cui Pacciani uccise le otto coppiette per motivi maniacali senza alcun complice o mandante, poiché un'intima "fantasia ossessiva" omicida è difficilmente condivisibile.[198][199]
Sul caso sono presenti anche idee alternative più di stampo settario-cospirazionista, che vedono i delitti come fatti di sangue legati a strategie occulte o organizzazioni internazionali: teorie che si basano su libri romanzati e non hanno alcuna base investigativa o tecnico-scientifica.[200] Tornando a teorie che ipotizzano il mostro come legato alla "pista sarda", si segnala l'idea di un detective
privato che riporta dubbi e retroscena su uno dei primi sospettati.[201] Il criminologo ed avvocato Luca Santoni Franchetti, che seguì il caso sin dal 1974,[202] sostenne la tesi che gli omicidi del mostro non fossero opera di un solo assassino bensì delitti di gruppo, commessi da un clan di persone di provenienza sarda.[203][204]
Sempre sulla possibilità che l'assassino fosse nell'ambiente sardo coinvolto nelle indagini degli anni ottanta, il libro Il mostro di Firenze di Cecioni e Monastra dedica notevole rilievo alla possibilità che il mostro potesse essere Salvatore Vinci, pur mantenendo un profilo bilanciato che valuta tutte le teorie sul colpevole o i colpevoli.[205] Lo scontro fra «colpevolisti» (coloro che credono nella colpevolezza o nel coinvolgimento di Pacciani e dei compagni di merende) ed «innocentisti» (coloro che non condividono le sentenze e ritengono che il mostro non sia mai stato catturato) ha causato, agli inizi e alla metà degli anni 2000, un clima «pesante» di scontro aspro, caratterizzato anche da duri litigi e reciproche querele.[206][207][208]
Vincenzo Vinagli ha sostenuto a più riprese di aver conosciuto il Mostro, e che sarebbe stato un operaio umbro morto nel 1999, con problemi sessuali e violento, che agiva come killer solitario.[209][210]
Un'altra vicenda coinvolse lo scrittore Alberto Bevilacqua, in quanto tirato in ballo dopo le dichiarazioni della poetessa Annamaria Ragno, che aveva intervistato la sedicente sensitiva di Perugia Gabriella Pasquali Carlizzi. Le due donne furono condannate per calunnia aggravata contro Bevilacqua, che uscì provato dalla vicenda.[211]

Ipotesi Killer dello Zodiaco:

La rivista Tempi ha pubblicato il 19 maggio 2018[212] la prima parte di un'inchiesta giornalistica[213] nella quale si afferma che dietro al Mostro di Firenze si celerebbe il Killer dello Zodiaco[214]. Secondo Francesco Amicone, l'autore dell'inchiesta, il sospettato sarebbe un italo-americano residente prima negli Stati Uniti, dove avrebbe commesso i delitti attribuiti al Killer dello Zodiaco, e poi si sarebbe trasferito in Italia, per uccidere ancora e guadagnarsi il soprannome di Mostro di Firenze. L'uomo, secondo l'inchiesta, sarebbe lo stesso americano che Mario Vanni in una intercettazione del 2003 identifica con il nome di "Ulisse" e "nero" (questo nonostante il presunto serial killer non sia di carnagione scura e non sia conosciuto per professare tendenze politiche di destra)[215]. L'uomo, ex agente del CID del 5th battaglione della Military Police USA, risulterebbe residente nella provincia fiorentina a partire dall'estate del 1974, pochi mesi dopo
l'ultima lettera ufficiale inviata dal Killer dello Zodiaco al San Francisco Chronicle[214]. Inoltre avrebbe firmato i propri delitti e le proprie lettere facendo pesanti allusioni alla propria identità, che conterrebbe il vocabolo italiano "acqua"[216]. Il 29 maggio 2018, lo stesso giornalista pubblica su Il Giornale [217] le presunte parziali confessioni del presunto assassino. Il presunto serial killer, sempre secondo lo stesso giornalista, avrebbe anche dichiarato che i suoi colleghi di lavoro del CID erano informati della sua "seconda vita" e che non si sarebbe costituito, nonostante il pentimento, "per evitare guai agli altri"[218]. A seguito di questi articoli, Francesco Amicone ha denunciato[219] il cittadino statunitense di origine italiana Giuseppe "Joe" Bevilacqua, il quale ha smentito la confessione[220]. Bevilacqua, accusato da Amicone di essere il responsabile dei delitti del Mostro e di Zodiac, era stato "supertestimone" dell'Accusa nel primo processo a Pietro Pacciani[115] e risiedeva a qualche centinaio di metri di distanza dal luogo del duplice delitto del 1985.

Ulteriori teorie

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Ufficialmente la vicenda del Mostro di Firenze termina con la condanna ai compagni di merende. Tuttavia, una serie di misteriosi avvenimenti, accaduti sia nel periodo dei delitti, sia negli anni precedenti e seguenti ai processi riguardanti il caso, ha dato adito a molte supposizioni sul fatto che la vicenda non solo non sia stata mai completamente chiarita, ma che, al contrario, abbia lasciato molti punti oscuri. Alle 2:00 del mattino del 22 agosto 1968, il piccolo Natalino Mele di 6 anni raggiunse al buio, scalzo e scioccato, un casolare sito ad oltre 2 chilometri di distanza da dove è parcheggiata l'automobile dove sono stati appena uccisi la madre ed il suo amante. I calzini completamente puliti del bambino ed il fatto che il campanello del casolare è situato ad un'altezza irraggiungibile da
parte del piccolo sono stati al centro di un lungo dibattito sul fatto se il bambino avesse effettivamente raggiunto il casolare senza l'aiuto di qualche adulto. Lo stesso Natalino, dietro minaccia dal maresciallo Ferrero di essere punito se non avesse detto la verità, cambia versione dicendo di essere stato portato fino al casolare dal padre.[221] Ad oggi non si sa come realmente andarono i fatti quella notte.[222] Natalino Mele, una volta cresciuto, rilasciò un'intervista a Mario Spezi nella quale affermò di avere nella memoria tanti vuoti che lo avrebbero onvinto a sostenere che le sue non erano amnesie provocate dallo choc subito da piccolo, ma qualcosa di più complesso. Egli sosteneva di essere stato vittima di un lavaggio del cervello ma non esiste alcuna prova che tali definizioni siano vere.[223][224] L'8 marzo 2011 la casa di Natalino Mele e della sua compagna Loredana venne distrutta da un incendio. Da quel momento si sono perse le sue tracce[225] fino al
2014, quando è stato fotografato da un giornalista mentre partecipava ad una manifestazione, sotto il palazzo prefetturale di Firenze, contro gli sgomberi delle case occupate.[226]
Nel gennaio 1980 un pensionato viene ritrovato morto nel parco delle Cascine di Firenze ucciso da un corpo contundente.[227]
Il 23 dicembre 1980 il contadino Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, donna che era stata amante di Pacciani e Vanni, venne ritrovato impiccato nella stalla della sua casa.[228] A detta della moglie, autori del delitto sarebbero stati proprio Pacciani e Vanni e a supporto di questa affermazione la donna disse che un giorno Pacciani l'aveva minacciata dicendole «attenta a non parlare di quello che ti abbiamo fatto, ti si fa fare la stessa fine che abbiamo fatto fare a tuo marito.»[229]
Nell'ottobre 1983, nei pressi di Fiesole in località Cave di Maiano, un cercatore di funghi vouyeurista venne massacrato a coltellate.[227]
Il 14 dicembre 1983 la prostituta Clelia Cuscito, che si frequentava con Mario Vanni, venne torturata con un'arma da taglio e soffocata con il filo del telefono.[230]
Tre giorni dopo il delitto di Baccaiano, l'autista dell'ambulanza che estrasse Paolo Mainardi ancora vivo dall'auto, sembra che abbia ricevuto una misteriosa e inquietante telefonata da parte di un uomo che, spacciandosi per un magistrato, cercò di ottenere dettagli su cosa avesse detto la vittima prima di morire. Al rifiuto dell'autista di parlare della cosa per telefono, l'uomo avrebbe cominciato a minacciarlo qualificandosi come l'assassino. L'episodio non poté mai essere verificato quindi non è possibile affermare con certezza sia che esso sia avvenuto sia che la telefonata sia stata realmente fatta dall'assassino.[231]
Nel settembre 1985, pochi giorni prima del delitto degli Scopeti, un altro uomo venne ucciso nel parco delle Cascine di Firenze con una coltellata alla schiena.[227]
Poco dopo il delitto dei due giovani francesi, una donna, mentre si trovava in treno nella zona di Scandicci, venne avvicinata da un uomo molto distinto che le disse che in quel giorno era stato fatto pervenire al Sostituto Procuratore Della Monica un brandello di seno di una vittima del mostro. La donna non diede grande peso alla cosa fino a quando venti giorni dopo lesse sul giornale la notizia della lettera anonima alla dottoressa Della Monica contenente un pezzo di seno.[223]
Francesco Vinci, uno dei vari sospettati iniziali, fu trovato assassinato il 7 agosto 1993 insieme a un amico, Angelo Vargiu, in una pineta nei pressi di Chianni. I loro corpi, incaprettati, erano stati rinchiusi nel bagagliaio di una Volvo data alle fiamme. Si ipotizzò un collegamento con la vicenda del "mostro", ipotesi però quasi subito scartata[69]; più probabilmente, date anche le modalità del delitto, era da ritenersi una vendetta nata in ambienti malavitosi sardi attorno ai quali pare che Vinci gravitasse. Il caso è rimasto sostanzialmente insoluto.[70]
La prostituta Milva Malatesta, figlia di Renato e Antonietta Sperduto (la donna che era stata l'amante di Pacciani e Vanni), venne trovata, insieme al figlio Mirko Rubino, di soli 3 anni, bruciata nella sua Panda il 17 agosto del 1993, pochi giorni dopo l'omicidio di Francesco Vinci (ucciso con le stesse modalità), che in passato era stato suo amante. Per questo duplice omicidio venne processato Francesco Rubino, compagno della Malatesta e padre del piccolo Mirko, che però venne assolto in tutti e tre i gradi di giudizio per non aver commesso il fatto e tale duplice delitto è rimasto a tutt'oggi insoluto.[223][228]
Il 25 maggio 1994 la prostituta Anna Milvia Mattei, la quale conviveva con Fabio Vinci, il figlio di Francesco, venne strangolata e bruciata nella sua casa di San Mauro.[223][228] Dell'omicidio fu imputato Giuseppe Sgangarella, amico di Francesco Vinci e anche di Pietro Pacciani, con il quale aveva condiviso la cella durante la sua detenzione.[232]
Claudio Pitocchi, operaio di Tavarnelle che aveva testimoniato al processo Pacciani, muore in un incidente stradale l'8 dicembre 1995.[228]
Quando nel 1996 Pietro Pacciani venne assolto in appello e fece ritorno a casa non vi trovò più la moglie Angiolina Manni. La donna infatti, non volendo più avere nessun rapporto con l'uomo, pare se ne fosse andata via di casa e nel luglio dello stesso anno avviò anche le pratiche per la separazione dal marito. Pacciani non convinto dell'allontanamento volontario presentò una denuncia per sequestro di persona affermando che qualcuno (forse la locale USL) aveva portato via la moglie e l'aveva fatta internare in una casa di cura.[32] A sostegno di questa tesi vi sono le affermazioni di alcuni vicini di casa che asserirono di aver visto la donna trascinata via di forza da diverse persone. Tali denunce caddero comunque nel vuoto e la Manni non ricontattò più in alcun modo il marito, nonostante che questi lanciò diversi appelli a giornali e televisioni, in cui chiedeva alla moglie, inesorabilmente invano, di tornare a vivere assieme a lui.[223] Angiolina Manni è deceduta il 23 novembre 2005, in una casa di riposo di Radda in Chianti dove risiedeva da diverso tempo, all'età di 76 anni.

Misteri connessi alla vicenda

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Venne rinvenuta nel 2011, nel deposito della polizia giudiziaria di Potenza, una pistola dello stesso modello usato per i delitti del mostro, una Beretta calibro 22 che secondo le indagini della scientifica potrebbe essere stata acquistata a Sassari nel 1960 e vi sono alte probabilità che fosse quella di Stefano Aresti, amico di Salvatore Vinci, sardo emigrato in Toscana proprio nel 1960; Vinci fu uno dei protagonisti della pista sarda, aperta dagli inquirenti quando si scoprì che i bossoli Winchester long rifle con la lettera "H" incisa sul fondello trovati sui luoghi degli omicidi erano stati sparati dalla stessa pistola del primo omicidio del 1968 quando venne uccisa la moglie di Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana.[233][234] In tutto il mondo ci sono cinque pistole con una matricola che inizia con quelle cifre. Due sono state vendute a New York, una a Roma ed un'altra in Campania: tutte armi ancora possedute dai proprietari, ad eccezione di quella che Aresti non ha più in suo possesso.[234] La notizia però, col tempo, ha preso il sapore della «bufala». Infatti l'amico/parente di Salvatore Vinci si chiamava Franco Aresti e non Stefano.[235][236]
Successivamente poi le analisi del RIS di Roma hanno escluso che si tratti dell'arma del mostro, poiché il modello di quest'ultima era completamente diverso da quello della pistola rinvenuta a Potenza.[237][238]
Nel 2018 viene annunciato il ritrovamento di una traccia genetica non riconducibile alle vittime in un reperto dimenticato dell'ultimo delitto, un fazzoletto insanguinato, trovato all'epoca (alcuni giorno dopo il delitto degli Scopeti) in un cespuglio assieme a dei guanti da chirurgo, su cui il professor Riccardo Cagliesi dell'Istituto di Medicina Legale di Firenze, il 7 novembre 1985 aveva redatto una relazione di 13 pagine, indicante che il materiale era sangue umano di gruppo B (compatibile ad esempio con il gruppo sanguigno di Mario Vanni ma non con quello di Pacciani) e il frammento pilifero un capello umano, color castano, come i capelli ritrovati sui corpi di Susanna Cambi e Stefano Baldi, vittime del 1981. Il reperto era stato poi dimenticato; a fine luglio 2017, la procura di Firenze ha fatto eseguire l'esame del DNA, da confrontare con quello dei sospetti e dei condannati in via definitiva. Reperti genetici attendibili sono stati estratti anche dalle buste inviate ai
magistrati dal killer[239], così come è stata ordinata una nuova analisi forense-balistica di tutti i bossoli ancora conservati.[26]
Il 29 maggio 2018, come già detto, un giornalista de 'Il Giornale' afferma di aver raccolto la confessione di un ex funzionario americano, il quale sosterrebbe di essere sia il Mostro di Firenze che il killer dello zodiaco, ma l'ipotesi è facile da scartare.
Nel 2019 viene reso nota una perizia secondo la quale l'arma del Mostro potrebbe non essere stata la famosa Beretta calibro 22 ma un'arma modificata o un'altra calibro 22, o la stessa Beretta ma con la canna sostituita.[240]
Giampiero Vigilanti, un ex legionario, nato nel 1930, residente a Prato ed originario di Vicchio del Mugello che conosceva Pacciani (suo compaesano, con cui, a suo dire, nel 1948 ebbe una lite e uno scontro fisico in cui Pacciani ebbe la peggio ricevendo una bastonata in testa[241]), è stato iscritto nel registro degli indagati nel 2017; era già stato perquisito nel settembre del 1985, tre giorni prima della prima perquisizione a Pacciani e pochi giorni dopo l'ultimo delitto, a seguito della segnalazione di alcuni vicini che lo indicarono come possibile responsabile dei delitti del mostro, e per il fatto che la sua automobile somigliava a quella vista quando venne realizzato l'identikit; nella sua abitazione furono trovati alcuni ritagli di giornali sui delitti; egli era conoscente di quasi tutte le persone implicate a vario modo nella vicenda, compresi i compagni di merende, i sardi e Narducci[242]; negli anni '50 aveva combattuto in Indocina con la legione straniera francese in cui si arruolò nel 1952[241], venendo anche, secondo il suo stesso racconto, sepolto vivo[243] dai Viet Minh, restando loro prigioniero per 20 giorni.[244] Il maresciallo Antonio Amore, che lo perquisì la prima volta, vide in casa sua una foto dove Vigilanti posava accanto a cadaveri decapitati di nemici, e con in mano una testa mozzata, rimanendone impressionato. Vigilanti ha dichiarato di aver ucciso circa 300-500 nemici durante la guerra d'Indocina.[241] Dopo aver lasciato la legione nel 1960, lavorò come comparsa nel cinema, aprì un nightclub a Marsiglia, fece diversi lavori e poi si impiegò in un'impresa di pompe funebri a Prato fino alla pensione.[241]
Un testimone del 1984 disse che una persona osservò le vittime Claudio Stefanacci e Pia Rontini con insistenza prima del delitto; quest'uomo fu descritto come persona alta, robusta, vestita elegante, e con un grosso anello al dito, come l'anello legionario portato da Vigilanti, e, invitato a partecipare ai funerali, non venne. Tuttavia l'anello originale andò perso.[242] Amore riscontrò anche una somiglianza con l'aspetto del killer, ma il legionario non fu indagato, benché si trovasse nel 1986 nella stessa lista di 38 sospetti stilata dalla polizia e dalla SAM di Ruggero Perugini, in cui si trovava anche Pietro Pacciani (Vigilanti al numero 38, Pacciani al 31).[245] Vigilanti ha dichiarato nel 2017 che Pia Rontini fu uccisa "per un rifiuto"[48], ed era
molestata da un medico.[246]

Sviluppi successivi della vicenda
Giampiero Vigilanti

Giampiero Vigilanti mostra al fotografo di un
giornale la pistola High Standard calibro 22 e una
vecchia foto della Legione Straniera (1998)

19/7/2019 Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti 21/29

Nove anni più tardi, nel 1994, a causa di una lite con un vicino di casa subì una seconda perquisizione e vennero trovati 176 proiettili della stessa marca di quelli usati nei delitti, punzonati con la lettera H, ma gli accertamenti non portarono a nulla e Vigilanti venne scagionato. Per gli 8 duplici omicidi, vista la vicinanza di Vigilanti con l'estrema destra, venne ipotizzata una nuova pista legata alla strategia della tensione in Italia in base alla quale i delitti sarebbero stati commessi per distrarre i magistrati dall’attività eversiva dell'epoca. Nel 1998, anno della morte di Pacciani, Vigilanti tornò ancora alla ribalta partecipando a un programma televisivo dove affermò di aver avuto una grossa eredità da uno zio "Joe" americano mai identificato.[149]
L'ipotesi fu poi ripresa nel 2017 dopo un esposto dell’avvocato Vieri Adriani, legale dei familiari di Nadine Mauriot, una delle vittime e che sostenne che i delitti cessarono nel 1985, proprio perché alcune perquisizioni “andarono nella giusta direzione”. Il capo della Procura di Firenze Giuseppe Creazzo però smentì subito che dalle indagini in corso siano emersi elementi di prova che colleghino i delitti del cosiddetto mostro di Firenze con possibili ambienti eversivi.[247][248] Vigilanti è stato comunque indagato per concorso in omicidio per tutti gli otto delitti.[242] Si dichiara innocente ma dice di essere a conoscenza di alcune informazioni.[241] A seguito di sue affermazioni, venne indagato anche Francesco Caccamo, un medico di Prato di 86 anni del Mugello, iscritto alla massoneria[246] e indicato dal Vigilanti (che ha anche affermato che Pacciani e Vanni erano innocenti[242][243]) come “uno degli anelli del secondo livello” ovvero uno dei mandanti. Entrambi vennero iscritti sul registro degli indagati ma dalla perquisizione a casa del medico non si ebbero riscontri a questa tesi.[175][174] Vigilanti possedeva una Beretta calibro 22, non risultata comunque essere l'arma del delitto dalle analisi del 1994, di cui ha denunciato il furto nel
2013 (in un'intervista del 2017 ha detto invece che gli furono sottratte nel settembre 2016[241]) assieme ad altre pistole di diverso tipo, che gli sarebbero state sottratte durante un'effrazione.[242]
Nel 2019 l'anziano ex legionario, ancora sotto inchiesta, è stato denunciato per maltrattamenti domestici dalla moglie.[249]
Pacciani e Vanni vengono citati nel singolo Killer Star di Immanuel Casto.[250] Pacciani viene citato anche nei brani Su le mani e Momenti no del rapper Fabri Fibra, dal rapper Lanz Khan nel brano I kill you, nel brano L'Italia di Piero di Simone Cristicchi, nel brano Camporea del gruppo musicale veneto Rumatera, nel brano Non crediamo in niente di Mr Tools MC Bbo e nel singolo Numeri del rapper MadMan.
Si parla di "Mostro di Firenze" anche nel brano Rotten del rapper Nitro. La serie televisiva Criminal Minds: Beyond Borders ha dedicato il secondo episodio della seconda stagione agli omicidi commessi dal Mostro di Firenze, ma in un nuovo contesto.
Nel libro Hannibal di Thomas Harris, si fa riferimento al Mostro di Firenze come caso giudiziario prima brillantemente risolto dall'ispettore Pazzi, il quale poi cade in disgrazia quando il presunto serial killer viene scagionato.
Il 7 febbraio 1986 esce con poca risonanza e in pochissime città italiane il film L'assassino è ancora tra noi diretto da Camillo Teti, realizzato frettolosamente e con pochi mezzi e che, pur cavalcando l'onda emotiva dell'ultimo duplice delitto del 1985, passerà del tutto inosservato. Due mesi dopo, Il 12 aprile 1986, distribuito dalla Titanus di Goffredo Lombardo, arriva sugli schermi Il mostro di Firenze, tratto dall'omonimo libro del 1983 del giornalista e scrittore Mario Spezi e diretto da Cesare Ferrario. Il film, che proponeva una efficace ricostruzione degli avvenimenti e una interessante analisi della personalità del mostro, ebbe un buon successo di pubblico, nonostante sia stato al centro di vicende giudiziarie e sia stato osteggiato dalla commissione di censura che ne vietò l'uscita nelle sale cinematografiche di tutta la Toscana.[251] Un altro film che ricalca la vicenda, pur inserendovi elementi di fantasia, è 28º minuto (noto anche con i titoli Tramonti fiorentini e Quel violento desiderio), diretto da Gianni Siragusa e, successivamente, da Paolo Frajoli. Pur essendo stato girato anch'esso nel 1986, uscì soltanto nel 1991, direttamente per il circuito dell'home video, a causa del forte contrasto dei parenti delle vittime del mostro che ne stopparono a lungo la lavorazione e ne impedirono l'uscita nelle sale cinematografiche.[252]
Nel settembre 2008 l'attore americano Tom Cruise ha acquistato i diritti per portare sul grande schermo un adattamento del libro Dolci colline di sangue (The monster of Florence) di Mario Spezi e Douglas Preston, ma poi il progetto è saltato. Il film avrebbe dovuto avere George Clooney nel ruolo del protagonista.[253]
Il regista Antonello Grimaldi ha realizzato, nella primavera 2009, la miniserie televisiva Il mostro di Firenze, una ricostruzione della vicenda dal 1981 al 2006 che vede come protagonista il personaggio di Renzo Rontini (interpretato da Ennio Fantastichini) il padre di Pia, vittima femminile del Mostro di Firenze del delitto del 1984, per il canale Fox Crime in 6 parti, della durata di 45 minuti ciascuna, che sono andate in onda dal 12 novembre al 10 dicembre 2009 ed in seguito trasmesse in replica anche da Canale 5, in seconda serata, nell'estate 2010.[254]