Possiamo ricercare la verità solo nel momento in cui siamo disponibili ad assumerci la responsabilità di quel che diciamo. Questo è ciò che ho appreso in generale dalla vita. E queste parole risuonano forti nella mia mente da quando studio e pratico l’Astrologia: la mia verità , quella che potremmo evincere analizzando pianeti e Segni zodiacali, quanto può influire nella vita del consultante?
Sembra
una cosa da poco e invece la responsabilità sta alla base di tutto, anche alla
base della scienza stessa che dovrebbe legittimare o meno certi fatti. Il
prezzo che la scienza paga ad ogni suo sbaglio è l’autocorrezione; ma quando si
tratta di valutare un essere umano il discorso si fa più serio, soprattutto
quando bisogna decidere della sua libertà o della sua prigionia.
Ed è
proprio il punto della questione di oggi: da un lato abbiamo l’accusa, da un
lato la difesa e dall’altro il presunto colpevole conto tutto ciò che ruota
attorno alla verità , alla concezione di verità , alla realtà . Paolo
Franceschetti mi ha illuminato molto a proposito di questi argomenti. Già da un
po’ di anni si è occupato del caso del “mostro di Firenze” (per chi non
ricordasse di cosa si tratta, più in basso eccovi un estratto da Wikipedia)
vicenda che ha appassionato moltissimi criminologi oltre che “investigatori fai
da te”, col pallino della “verità ”. Il Tema Natale di Paolo mostra Marte, Urano
e Plutone congiunti in Vergine e nella X Casa, segnature che lo hanno
catapultato all’interno della vicenda stessa: è entrato dentro la storia facendo
addirittura la conoscenza di personaggi direttamente e indirettamente coinvolti
nei fatti, ma ha dovuto pagare un prezzo a volte troppo alto: la paura per la
sua incolumità fisica. La sua conclusione, per quanto possa sembrare una
minestra riscaldata, è che la verità spesso supera la fantasia. Ed è la
coscienza di riconoscere ciò che si ha da perdere e da guadagnare che ha
motivato la sua ricerca. Ma non è l’unico a ragionare in questi termini
“eroici”.
Ciro
Discepolo è un altro di quelli che non si è mai inchinato davanti a niente e
nessuno pur di raccontare i fatti, e si è assunto sempre la responsabilità di
ogni sua frase. Ed è infatti l’esempio che molti dinoi astrologi cerchiamo di
emulare. Da qualche tempo si sta interessando, anche astrologicamente, a quei
casi di cronaca che più hanno fatto discutere; ma ora torna a lavorare a un
nuovo progetto editoriale interamente dedicato proprio al mostro di Firenze.
Così, ecco la mia intervista a Ciro Discepolo che solo per i lettori di questo
blog concede alcune anticipazioni che senz’altro potranno fare gola agli
appassionati.
Buona
lettura.
Giuseppe
Galeota: Dove nasce la tua decisione di scrivere un libro sul “Mostro di
Firenze”?
Ciro
Discepolo: Da sempre la criminologia mi ha fortemente interessato. Da ragazzo
attraverso la letteratura e il cinema, soprattutto. In seguito anche a mezzo di
trasmissioni televisive tutte dedicate a fatti gravi di cronaca e soprattutto
ai misteri insoluti o parzialmente insoluti. Più recentemente — ma andiamo
indietro almeno fino al massacro compiuto da Erika e Omar — ho sistematicamente
tentato di studiare, astrologicamente, efferati delitti e, quando riuscivo a
procurarmi i dati di nascita, con ora di nascita, dei protagonisti degli
stessi, ho anche redatto e pubblicato interi libri e non solo articoli, come
per l’omicidio della piccola Sarah Scazzi o della povera Yara Gambirasio e, più
recentemente, per la strage di Erba compiuta da Olindo e da Rosa.
Giuseppe
Galeota: E come sei passato, poi, a delitti tanto vecchi? Addirittura di oltre
mezzo secolo fa?
Ciro
Discepolo: Perché credo che a livello mondiale i misteri relativi al Mostro di
Firenze non siano mai stati superati se mettiamo assieme numero delle vittime,
atrocità nelle modalità dei delitti, numero di inquisiti, numero di processi
iniziati (e non tutti terminati), fatti assolutamente incredibili come,
volendone citarne uno solo, che Mario Spezi, il cronista de La Nazione di
Firenze che ha seguito dall’inizio questi casi, è stato a sua volta accusato di
essere lui il mostro di Firenze e si è fatto anche del carcere. Le ipotesi di
investigatori, magistrati, poliziotti, carabinieri, criminologi, psicologi,
giornalisti, scrittori, blogger sono andate in tutte le direzioni e credo che
qualcuno abbia indicato anche il Papa tra i mandanti degli omicidi… È mia
opinione che tali fatti resteranno di grandissima attualità anche fra duecento
anni. Alcuni colpevoli sono stati individuati e anche condannati in via
definitiva. Decine e decine restano ancora le lacune e le piste ancora aperte.
Ecco: poter gettare la lente astrologica in questo oceano di misteri criminali,
forse il più grande oceano di sempre e di tutto il mondo per numero di link, mi
ha affascinato moltissimo e spero di poter dare anche io un mio contributo alla
conoscenza dei fatti.
Giuseppe
Galeota: Hai già una pista?
Ciro
Discepolo: No, intendo procedere in un altro modo. Valuterò, da un punto di
vista astrologico, con cieli di nascita, Rivoluzioni Solari e Lunari e
transiti, i protagonisti di ogni pista in rapporto alle date dei delitti ed
esprimerò il mio pensiero in merito al grado di compatibilità di ogni ipotesi
investigativa.
Giuseppe
Galeota: sembra un lavoro enorme. Cosa ti preoccupa di più?
Ciro
Discepolo: Sì, da mesi sto leggendo per una decina di ore al giorno non solo le
carte processuali, ma anche le tesi, in rete o in libreria, di decine e decine
di persone che studiano anche da mezzo secolo (il primo delitto fu compiuto nel
1968) questi fatti. La fatica mi preoccupa più di tutto perché per il resto ho
eliminato alla fonte una sorgente enorme di possibili problemi: un editore.
Infatti mi pubblicherò con la mia casa editrice (Ricerca ’90 e utilizzando la
piattaforma di stampa e di distribuzione di Amazon). In questo modo sarò anche
più libero di scrivere ciò che penso, senza temere di subire censure.
Giuseppe
Galeota: Quando potremo leggere il libro?
Ciro
Discepolo: Non saprei perché man mano che leggo, vengono fuori nuovi possibili
protagonisti e allora devo cominciare a procurarmi gli estratti di nascita di
costoro: sto trovando una gentile e grandissima collaborazione nelle anagrafi
pubbliche, ma a volte occorrono anche due mesi per un singolo certificato.
Spero di pubblicarlo prima della fine dell’anno.
Qui si conclude l'intervista a Ciro Discepolo.
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Qui si conclude l'intervista a Ciro Discepolo.
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Ecco
qui di seguito i punti salienti del caso che io ho estratto da Wikipedia alla pagina: https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze
Mostro
di Firenze è la denominazione utilizzata dai media italiani
per riferirsi all'autore o agli autori di una serie di otto duplici omicidi
avvenuti fra il 1968 e il 1985 nella provincia di Firenze.
L'inchiesta
avviata dalla procura di Firenze ha portato alla condanna in via definitiva di
due uomini identificati come autori materiali di 4 duplici omicidi, i
cosiddetti "compagni di merende", Mario Vanni e Giancarlo Lotti (reo
confesso e chiamante in correità dei presunti complici), mentre il terzo, Pietro
Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per 7 degli 8 duplici
omicidi e successivamente assolto in appello, è morto prima di essere sottoposto
a un nuovo processo di appello, da celebrarsi a seguito dell'annullamento nel
1996 della sentenza di assoluzione da parte della Cassazione.
Le procure di
Firenze e Perugia sono state impegnate in numerose indagini volte a individuare
i responsabili esecutori materiali per 4 duplici omicidi e poi i possibili
mandanti. Le indagini si sono focalizzate anche su un possibile movente di
natura esoterica, che avrebbe spinto una o più persone a commissionare i
delitti[3][4].
La vicenda ebbe molto risalto mediatico in quanto fu il primo caso di omicidi
seriali in Italia riconosciuto come tale e uno dei più sanguinosi del Paese,
oltre che dilatato nel tempo che creò una vera e propria psicosi da mostro, di
anno in anno, e mise le basi anche per riflessioni dal punto di vista sociale:
suscitando estrema paura per la tipologia di vittime (giovani fidanzati in
atteggiamenti intimi), aprì l'opinione pubblica italiana al dibattito
sull'opportunità di concedere con maggiore disinvoltura la possibilità per i
figli di trovare l'intimità a casa, evitando così i luoghi isolati e pericolosi[5][6][7][8][9].
La serie di delitti e i primi sospettati
Antonio Lo
Bianco e Barbara Locci (21 agosto 1968)
Pasquale
Gentilcore e Stefania Pettini (14 settembre 1974)
Giovanni
Foggi e Carmela De Nuccio (6 giugno 1981)
Stefano
Baldi e Susanna Cambi (22 ottobre 1981)
Paolo
Mainardi e Antonella Migliorini (19 giugno 1982)
Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch (9 settembre 1983)
Claudio
Stefanacci e Pia Rontini (29 luglio 1984)
Jean-Michel
Kraveichvili e Nadine Mauriot (7/8 settembre 1985)
Indice
19/7/2019
Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti
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sospettate
Periodo
Omicidi
21 agosto
1968 - 8
settembre
1985
Luoghi colpiti Toscana,
campagne
intorno a
Firenze
Metodi
Uccisione
Colpi di
arma da
fuoco,
accoltellamento
e
mutilazioni
sessuali
Provvedimenti Ergastolo per Mario
Vanni e
26 anni per
Giancarlo
Lotti nella
sentenza definitiva
di
condanna ai
"compagni
di
merende"[1]. Pietro
Pacciani,
condanna
all'ergastolo,
poi
ribaltata
e infine
annullamento
con
rinvio[2]
Indagini
"Pista
sarda"
L'ipotesi
Pacciani
Processi
Processo a
Pacciani
Processo
ai "compagni di merende"
Mario Vanni
Giancarlo
Lotti
Fernando
Pucci
Ipotesi sui presunti mandanti
Possibili collegamenti con il caso Narducci
Ipotesi Francesco Calamandrei
Ipotesi alternative alle sentenze giudiziarie
Ulteriori
teorie
Misteri connessi alla vicenda
Sviluppi successivi della vicenda
Giampiero
Vigilanti
Influenze nella cultura di massa
Filmografia
Note
Bibliografia
Voci correlate
Altri progetti
Collegamenti esterni
I
reati del Mostro di Firenze vennero commessi nell'arco di 17 anni e hanno
riguardato giovani coppie appartatesi nella campagna fiorentina. I delitti
vennero commessi con mezzi e modus operandi costanti, nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e, tranne
quello del 1985 in cui le vittime erano in una tenda da campeggio, tutte le
altre erano all'interno di autoveicoli in luoghi appartati e notti di
novilunio, o comunque molto buie, quasi sempre d'estate (l'unica eccezione fu
quella del delitto del 22 ottobre 1981), nel fine settimana o in giorni
prefestivi[6]. Venne sempre usata la stessa arma
da fuoco, identificata come una pistola Beretta della serie 70 (probabilmente
il modello 74 o 76 da dieci colpi), calibro .22 Long Rifle, in commercio dal
1959, probabilmente un modello con canna lunga, sviluppata come propedeutica
alla disciplina sportiva del tiro a segno, caricata con munizioni Winchester
marcate con la lettera H sul fondello del bossolo (provenienti da almeno due
scatole da 50 cartucce ciascuna), con palla in piombo nudo e con palla in
piombo ramato galvanicamente.
Generalmente,
soprattutto nei delitti esplicitamente maniacali, il serial killer sparava
preferibilmente prima alla vittima maschile e poi alla donna. La vittima
femminile, quando subiva le escissioni o veniva martoriata con l'arma da
taglio, veniva trascinata, spostata, allontanata dall'auto e dal partner.
Spesso le vittime, sia maschili che femminili, subivano pure ferite d'arma
bianca inferte postmortem.
La serie di delitti e i primi sospettati
19/7/2019
Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti
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In
quattro degli otto duplici omicidi, l'assassino ha asportato il pube servendosi
di un'arma bianca; negli ultimi due casi venne asportato anche il seno
sinistro. I luoghi dei delitti (Signa, Borgo San Lorenzo, Scandicci, Calenzano,
Baccaiano, Giogoli, Vicchio, Scopeti) erano per lo più isolate strade di
campagna sterrate o piazzole nascoste frequentate da coppie. Ciò ha portato a
pensare che l'assassino fosse una persona che conosceva piuttosto bene i
territori dei luoghi dei delitti e che, in alcuni casi, pedinasse le vittime
prima di ucciderle[6].
Il
profilo più comune del killer, che emerse dalle prime indagini, fu quello di un
uomo destrimane della zona, iposessuale, feticista, d'intelligenza normale o
superiore alla media, alto circa 1,80 m. Queste caratteristiche psico-fisiche
si evincono dalla perizia De Fazio e dal profilo dell'FBI della sede di
Quantico, anche se occorre ricordare che gli studi delle modalità dei delitti,
al momento, non garantiscono certezze scientifiche sull'identità del killer, ma
solo delle tracce di profilazione criminale che, come tali, sono più o meno
condivisibili[10].
L'altezza superiore alla media dell'assassino venne ipotizzata in base
all'altezza dei fori nel furgoncino delle vittime di Giogoli[11]. Il dato trarrebbe conferma anche da
una possibile impronta di un ginocchio, forse lasciata dal killer nell'omicidio
di Vicchio; scientificamente però questi rilievi sull'altezza del killer non si
sono concretizzati in prove processuali inoppugnabili, vista la condanna in
primo grado inflitta a Pacciani come unico serial killer, nonostante la sua
altezza fosse di solo 165 cm circa. Secondo altre opinioni, invece, l'assassino
seriale fiorentino sarebbe di altezza media o persino modesta[12][13].
La
notte del 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca
posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono
assassinati Antonio Lo Bianco, muratore originario di Palermo di 29 anni,
sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, originaria
di Villasalto, in Provincia di Cagliari; i due erano amanti; la donna era
sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima.
Quella sera i due si erano recati al cinema di Signa per visionare, stando ad
alcune fonti, il film Nuda per un pugno di eroi[14]; il gestore del cinema li riconobbe,
successivamente, dalle foto pubblicate sui giornali; egli escluse, però, la
presenza del figlio della donna in quanto, considerato il film proiettato, non
lo avrebbe fatto entrare. Sostenne, infine, che dopo l'entrata della coppia al
cinema entrò soltanto un altro uomo del quale, però, non ricordava la
fisionomia[15]. Secondo ulteriori fonti, una
cassiera del cinematografo, vide invece la Locci con in braccio il figlio
semi-addormentato all'uscita del cinema[16]. A serata conclusa, i due si erano poi appartati in macchina. Sul
sedile posteriore dormiva Natalino Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e
Stefano Mele. L'assassino si avvicina all'auto ferma e spara complessivamente
otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro
l'uomo. Verranno repertati cinque bossoli di cartucce calibro 22 Long Rifle
Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello.
Intorno
alle due del mattino del 22 agosto, il bambino suona alla porta di un casolare
sito in via del Vingone 154, a oltre due chilometri di distanza da dove era
parcheggiata l'automobile. Il proprietario, De Felice, sveglio per via del
figlio malato che ha chiesto dell'acqua, si affaccia immediatamente alla
finestra, e davanti alla porta vede il bambino che scorgendolo a sua volta gli
dice: "Aprimi la porta perché
ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c'è
la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina"[17]. Dopo averlo soccorso, l'uomo gli
chiede chiarimenti e il piccolo stentatamente riferisce altri particolari sul
suo arrivo fin lì: "Era buio, tutte le
piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio
ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare "La Tramontana"... La
mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato"[17]. I Carabinieri, chiamati mezz'ora
dopo da De Felice, si mettono alla ricerca dell'auto portandosi dietro il
bambino. Intorno alle tre del mattino l'auto viene ritrovata grazie anche
all'indicatore di direzione dell'auto rimasto acceso, nella strada che si trova
su via di Castelletti, a 100 metri dal bivio per Comeana, in una zona
abitualmente frequentata da coppie in cerca di intimità [18].
I
delitti del Mostro di Firenze
1 21 agosto 1968
2 14 settembre 1974
3 6 giugno 1981
4 22 ottobre 1981
5 19 giugno 1982
6 9 settembre 1983
7 29 luglio 1984
8 7/8 settembre 1985
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Antonio Lo Bianco e Barbara Locci (21 agosto 1968)
Antonio
Lo Bianco e Barbara Locci
19/7/2019
Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti
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Le
indagini conducono al marito della donna, Stefano Mele, sospettato di aver
commesso il delitto per gelosia. Questo elemento è tuttavia reso piuttosto
inverosimile dal fatto che lo stesso Stefano Mele aveva più volte in passato
esternato un temperamento decisamente succube nei confronti della moglie (che
era soprannominata in paese Ape regina a causa dei suoi molteplici manti), giungendo persino a ospitare
in casa sua per diverso tempo un suo amico e amante della moglie, Salvatore
Vinci, da taluni indicato come il vero padre del piccolo Natalino. I
pettegolezzi del paese insinuavano persino che l'uomo, al mattino, portasse il
caffè a letto agli amanti della donna e che accondiscendesse ad avere rapporti
sessuali con alcuni di loro, incluso lo stesso Vinci[19]. Il 23 agosto, dopo 12 ore di
interrogatorio[20],
e dopo aver negato inizialmente un suo coinvolgimento e aver gettato sospetti
sui vari amanti della moglie, arriva a confessare il delitto. Durante il sopralluogo
effettuato quello stesso giorno, l'uomo risulta totalmente incapace di
maneggiare un'arma, e confonde il finestrino dal cui esterno partirono i colpi;
tuttavia, dimostrò di conoscere tre particolari che poteva sapere solo avendo
assistito alla scena del delitto, ossia il numero di colpi sparati (8),
l'indicatore di direzione ancora acceso della vettura e la mancanza della
scarpa sinistra dal piede di Lo Bianco[21]. Dopo poche ore Mele ritratta in parte la confessione, e
coinvolge come complice Salvatore Vinci. Lo accusa di avergli fornito l'arma e
di essere stato da lui accompagnato in auto fino alla via di Castelletti. Dopo
aver sparato, dice di aver gettato la pistola nel canale che corre lungo il
cimitero, ma malgrado le ricerche l'arma non verrà mai ritrovata.
Nonostante
il Vinci abbia portato un alibi confermato da due testimoni, il 24 agosto i due
vengono messi a confronto. L'incontro però dura molto poco, perché dopo le
prime battute Stefano Mele ritratta ancora e scagiona Salvatore[22]. Non passa mezz'ora che Mele
fornisce una nuova versione; questa volta al posto di Salvatore Vinci c'è il
fratello Francesco, anch'egli amante della Locci e, a detta di Mele, assai
geloso della donna. Francesco Vinci per un certo periodo aveva addirittura
convissuto con la Locci a casa di quest'ultima, e per questo veniva denunciato
dalla propria moglie per abbandono del tetto coniugale e concubinato. Il giorno
successivo, accortosi che la nuova accusa non era sostenuta da riscontri,
Stefano punta il dito contro un terzo amante della moglie, Carmelo Cutrona, e
racconta che il pomeriggio prima del delitto, recatosi a casa sua in cerca di
Barbara, vi trova Lo Bianco (che Mele conosceva col nome di Enrico) e per
questo motivo se ne va via molto turbato.
I
magistrati intanto stanno nuovamente sentendo il bambino, che dopo aver
sostenuto per giorni di non aver sentito, né visto nulla, adesso ammette di
aver visto al suo risveglio il padre, e che questo lo avrebbe preso sulle
spalle portandolo fino alla casa di Vingone dopo avergli fatto promettere di
non dire nulla[23].
È a questo punto che Mele cede confermando la versione del figlio, scagionando
le altre persone accusate fino a quel momento. Nonostante le molte incongruenze
e l'assenza dell'arma, nel marzo del 1970 Stefano Mele viene condannato dal
tribunale di Perugia in via definitiva alla pena di 14 anni di reclusione. La
pena è piuttosto mite perché l'uomo viene riconosciuto parzialmente incapace di
intendere e di volere. Gli vengono inoltre inflitti 2 anni di reclusione per
calunnia contro i fratelli Vinci[24]. Durante il processo, Giuseppe Barranca, cognato di Antonio Lo
Bianco, collega di lavoro di Mele e anch'egli amante della Locci, raccontò che
la donna, pochissimi giorni prima del delitto, si era rifiutata di uscire con
lui dichiarando che "potrebbero
spararci mentre siamo in macchina"
e, in un'altra occasione, gli aveva raccontato che c'era un tale che la seguiva
in motorino. Una deposizione analoga fu resa da Francesco Vinci, che parlò di
un uomo in motorino che avrebbe pedinato la Locci durante i suoi appuntamenti
con gli amanti[25].
Fino
al 1982 non si riteneva che di questo delitto fosse responsabile il mostro di
Firenze che si pensava infatti avesse iniziato a colpire il 14 settembre 1974;
a seguito però del ritrovamento casuale in archivio di alcuni bossoli che, dopo
le analisi, risultarono identici a quelli trovati sulle altre scene dei
crimini, si dedusse che la pistola usata dal mostro era la stessa usata
dall'assassino che aveva ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci nell’estate
del 1968[26].
Sei
anni dopo, il 14 settembre 1974, Pasquale Gentilcore di 19 anni, impiegato alla
Fondiaria Assicurazioni, e Stefania Pettini, 18 anni (la vittima più giovane
del serial killer, come Pia Rontini), segretaria d'azienda presso un magazzino
di Firenze e attivista del Partito Comunista Italiano, vengono uccisi in una
strada sterrata nella frazione di Rabatta, vicino a Borgo San Lorenzo. I due si
frequentavano da circa due anni ed erano in procinto di annunciare il loro
fidanzamento ufficiale[27].
Pasquale Gentilcore, dopo aver accompagnato la sorella Cristina alla discoteca Teen Club di Borgo San
Lorenzo, promettendole di tornare a prenderla al più tardi per la mezzanotte,
raggiunge la fidanzata a Pesciola di Vicchio, presso l'abitazione di lei. Da
lì, verso le 22:00, i due giovani ripartono per raggiungere gli amici che li
aspettano in quello stesso locale per proseguire la serata. Durante il tragitto
decidono però di appartarsi in un tratturo sulle sponde della Sieve, da loro
già conosciuto e normalmente frequentato dalle coppie della zona[28]. Intorno alle 23:45 (orario appurato
sulla base di una testimonianza che ode dei colpi a quell'ora[29]) qualcuno spunta forse dall'attiguo
vigneto e comincia a sparare. Pasquale Gentilcore, seduto al posto di guida,
viene raggiunto da cinque colpi esplosi da una Beretta calibro .22 Long Rifle,
i colpi mortali arrivano dal lato sinistro della 127. La ragazza viene
raggiunta da tre colpi che tuttavia non la uccidono; viene trascinata fuori
dall'auto ancora viva, resa del tutto incapace di fuggire a causa delle ferite
alle gambe provocate dai tre proiettili, e
Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini (14 settembre 1974)
19/7/2019
Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti
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uccisa
con tre coltellate profonde allo sterno[30]. Dopo averne disteso il corpo dietro l'auto, l'assassino continua
a colpirla per altre 96 volte, colpendo anche il seno e il pube[31][32]. Successivamente l'omicida penetra
la vagina della ragazza con un tralcio di vite e questo particolare, anni dopo,
farà pensare a un possibile movente esoterico, anche
se altri più semplicemente lo interpretano come un ulteriore oltraggio da parte
dell'assassino al corpo della vittima; considerato infatti che il luogo del
delitto era sito in prossimità di alcune piante di vite, è molto probabile che
il gesto non fosse premeditato.
Le
sevizie sul corpo di Stefania furono tanto violente da causare, in sede
processuale, lo svenimento di un Carabiniere durante l'udienza in cui venivano mostrate
le foto del corpo della ragazza[32]. Prima di lasciare il luogo l'omicida colpisce con il coltello
anche il corpo esanime di Pasquale con 5 fendenti all'altezza del fegato[32]. Il mattino successivo, i familiari
dei due ragazzi, allarmati per il mancato rientro dei figli, si recano a
sporgere denuncia di scomparsa presso la stazione dei Carabinieri di Borgo San
Lorenzo, ove vengono informati immediatamente del delitto, scoperto un'ora
prima da un contadino che abitava e lavorava da quelle parti. In questo caso,
così come nei delitti successivi, vengono ritrovati, sparsi sul terreno, gli
oggetti contenuti nella borsetta della ragazza (particolare questo che si
presenterà in tutti gli omicidi). La borsa e il reggiseno della Pettini
verranno invece ritrovati la sera stessa in un luogo poco distante in seguito a
una telefonata anonima, mentre il portafogli della ragazza, il suo orologio e
alcuni monili di modesto valore a lei appartenenti non saranno più rinvenuti.
Il
pomeriggio prima di essere uccisa la Pettini aveva confidato a un'amica di aver
fatto uno "strano incontro" con una persona poco piacevole che
l'aveva turbata, ma non ebbe tempo di approfondire il fatto. Un amico della
Pettini, titolare della scuola guida dove la ragazza stava conseguendo la
patente, raccontò ai carabinieri di un pedinamento da parte di uno sconosciuto
in auto durante una lezione di guida, il venerdì sera prima del delitto. In
ogni caso la Pettini non fu la sola, tra le vittime femminili del maniaco, ad
aver lamentato molestie da parte di ignoti poco prima dei delitti[24]. Gli inquirenti esaminarono anche il
diario della ragazza ma senza trovarvi alcun'annotazione insolita. Qualche anno dopo i quotidiani tornarono a parlare del caso dopo
che la tomba di Stefania (sepolta assieme al fidanzato, nel cimitero di Borgo
San Lorenzo) fu manomessa e danneggiata da ignoti.
Dopo
altri sette anni, nello stesso anno vengono commessi due duplici omicidi. Il
primo nella notte tra il 6 e il 7 giugno 1981 nei pressi di Mosciano di Scandicci.
Le vittime sono Giovanni Foggi, 30 anni, dipendente dell'Enel, e la sua
ragazza, Carmela De Nuccio, pellettiera di 21 anni, originaria di Nardò, in Provincia
di Lecce. I due si conoscevano da pochi mesi ma avevano già programmato di
sposarsi. La sera del delitto, un sabato, cenano a casa dei genitori di Carmela,
poi, verso le 22:00, escono per una passeggiata e si appartano con l'auto, una
Fiat Ritmo color rame, in una stradina sterrata sulle colline di Roveta,
non
lontano dalla discoteca Anastasia, e in una zona frequentata abitualmente da coppiette e guardoni.
Giovanni
viene raggiunto da tre colpi di pistola esplosi attraverso il finestrino
anteriore sinistro, mentre altri cinque proiettili colpiscono Carmela[33]. In fase di sopralluogo verranno
però rinvenuti solo cinque bossoli su otto[34], un particolare, quello dei bossoli mancanti, che si ripresenterÃ
ancora nel 1983, nel 1984, e che già si era verificato nel 1968 e nel 1974. La
ragazza viene tirata fuori dalla macchina e trascinata in fondo al terrapieno
rialzato su cui corre la stradina, dove le verranno recisi i jeans e, per mezzo
di tre precisi fendenti, le verrà asportato interamente il pube. Anche in quest'occasione l'omicida, presumibilmente prima di
lasciare il luogo del delitto, colpisce con il coltello il corpo esanime del
ragazzo. I corpi dei due giovani saranno
rinvenuti il mattino dopo. L'uomo è ancora a bordo dell'auto, come nel delitto
del 1974. Anche in questa occasione le armi usate sono la Beretta calibro .22 e
un coltello. Anche in questo caso si verifica l'accanimento sui cadaveri,
soprattutto su quello della donna. Altre analogie con il delitto precedente
sono la borsetta della ragazza rovistata e il contenuto gettato a terra senza
che
però
questa volta risulti mancare nulla. Per il delitto viene inizialmente
sospettato l'ex fidanzato della De Nuccio, che in passato aveva avuto screzi
con lei, ma il giovane risultò avere un alibi[35].
Vincenzo
Spalletti, trentenne, sposato e padre di tre figli, era, ai tempi, un autista
di autoambulanze presso l'Ospedale Misericordia di Montelupo Fiorentino,
conosciuto in famiglia e presso la Taverna
del Diavolo, un ristorante della zona, per
essere anche un guardone. Il fenomeno del voyeurismo era peraltro in quei tempi
marcatamente diffuso nella provincia fiorentina[24]. La domenica mattina seguente al duplice delitto, rientrato
all'alba dopo aver trascorso la serata fuori con un amico guardone, racconterÃ
alla moglie e ad alcuni avventori di un bar da lui frequentato, di aver visto
"due morti
Pasquale
Gentilcore e Stefania
Pettini
Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio (6 giugno 1981)
Carmela
De Nuccio e Giovanni
Foggi
19/7/2019
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ammazzati";
racconterà inoltre particolari inerenti al delitto (in particolare la
mutilazione inflitta alla ragazza), che però non erano ancora stati divulgati
dagli organi di stampa e dai mass media. In seguito alle indagini alcune
persone testimoniarono di aver visto la sua auto nei pressi del luogo del
delitto nella notte del 6 giugno. Spalletti viene quindi arrestato; durante l'interrogatorio
afferma di aver letto la notizia sui giornali, cosa impossibile in quanto i
giornali che riportavano il fatto non erano stati pubblicati prima di lunedì e,
inoltre, mente sull'orario di rientro a casa per la notte del delitto. Viene
quindi accusato di falsa testimonianza e incarcerato, ma col sospetto che
l'assassino possa essere proprio lui.
Mentre
Spalletti si trovava in carcere sua moglie e suo fratello ricevettero diverse
telefonate anonime, in cui veniva loro assicurato che il loro congiunto sarebbe
stato presto scagionato[24],
cosa che in effetti accadrà nell'ottobre dello stesso anno a seguito di un
nuovo duplice delitto che scagionerà completamente Spalletti[36][37]. Un conoscente dello Spalletti,
anch'egli noto come guardone, sentito dagli inquirenti, asserì di essere stato
fermato nei boschi, all'incirca all'epoca del delitto, da un tizio con una
divisa che non aveva saputo identificare. L'uomo in divisa gli avrebbe rivolto
velate minacce, rimbrottandolo aspramente e mostrandogli - a suo dire - una
pistola[24].
Il
22 ottobre 1981, a soli quattro mesi di distanza dal precedente omicidio, a
Travalle di Calenzano vicino a Prato, in località Le Bartoline, lungo una
strada sterrata che attraversa un campo, a poca distanza da un casolare
abbandonato, vengono uccisi Stefano Baldi, di 26 anni, operaio tessile di
Calenzano, e Susanna Cambi, commessa di 24 anni. I due, che avrebbero dovuto
sposarsi entro pochi mesi, avevano cenato a casa di Stefano, quindi erano
usciti a bordo dell'auto del giovane, una Golf nera, e non avevano più fatto
ritorno. Alcuni amici del ragazzo riferirono che Baldi inizialmente intendeva
restare con loro a
guardare
una partita di calcio, ma poi aveva cambiato idea decidendo di trascorrere la
serata (vigilia di uno sciopero generale) con la fidanzata. La Cambi viene
raggiunta e uccisa da cinque colpi, mentre il ragazzo viene colpito quattro
volte. Le cartucce sono di marca Winchester con la lettera "H" sul
fondello, sparate dalla stessa Beretta calibro .22 Long Rifle, di cui saranno
reperiti solo 7 bossoli dei 9 complessivi che si sarebbero dovuti
effettivamente rinvenire. In questo caso l'omicida, per raggiungere la ragazza
e compiere l'escissione del pube, è costretto a estrarre dall'auto anche il
corpo di Stefano. Il corpo della
ragazza
verrà trovato ad una decina di metri dall'auto, in un canaletto, con la maglia
sollevata fino al collo. Il seno sinistro presenta gravi ferite inferte con arma
bianca. Anche in questo caso verranno ritrovati gli oggetti contenuti nella
borsetta della ragazza sparsi nelle zone circostanti il luogo del delitto. Il
corpo di Susanna Cambi presenta ferite da arma da taglio, almeno quattro, di
cui tre alla schiena. Il giorno successivo al delitto, prima del rinvenimento
dei corpi, un uomo telefonò alla zia di Susanna chiedendo di parlare con la
madre della giovane che in quel periodo era ospite con le due figlie presso la
sorella. La voce all'altro capo del telefono è stata descritta dalla zia della
Cambi come "chiara, distinta e priva di inflessioni dialettali". A
causa di un guasto sulla linea, tuttavia, la comunicazione venne interrotta
subito. Si tratta di un particolare decisamente misterioso, considerato che il
numero di telefono, relativo a un indirizzo nuovo, era provvisorio e quindi
nessuno avrebbe dovuto conoscerlo[24]. Secondo quanto sostenuto dall'avvocato
Nino Filastò, inoltre, poco prima del delitto Susanna
Cambi
avrebbe fatto capire alla madre di essere pedinata da qualcuno. In una
circostanza, mentre guidava l'auto in compagnia della madre, aveva rischiato di
provocare un incidente spiegandole che "un tale, il solito"
la stava seguendo e che era sua intenzione evitare di incontrarlo.
La
notte del 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli vengono uccisi Paolo
Mainardi, meccanico di 22 anni, e Antonella Migliorini di 19, dipendente di una
ditta di confezioni. I due giovani, fidanzati da molti anni e soprannominati
dagli amici Vinavil perché inseparabili, erano appartati a bordo di una piccola Fiat
147, in uno slargo presente sulla Strada Provinciale Virginio Nuova dopo aver
trascorso la serata a cena con dei parenti. Nelle
ultime settimane Antonella aveva confidato ad amiche e colleghe di aver paura
del maniaco delle coppiette (il termine Mostro
di Firenze all'epoca non era stato ancora
coniato) e che avrebbe evitato di appartarsi in luoghi isolati col fidanzato.
L'assassino
sopraggiunge favorito dall'oscurità ed esplode alcuni colpi verso la coppia;
sul luogo del delitto verranno messi a reperto nove bossoli di calibro .22
sempre con la lettera "H" punzonata sul fondello; Paolo viene solo
ferito e riesce a mettere in moto l'auto e a inserire la retromarcia. Tuttavia
non è in grado di controllare l'auto che attraversa la strada e resta poi
bloccata nella proda sul lato opposto. A questo punto l'assassino spara contro i
fari anteriori dell'auto e colpisce a morte i due giovani. Secondo la versione
tuttora condivisa dai più e ammessa al processo, l'assassino in seguito
sfilerÃ
le chiavi dal quadro d'accensione della vettura e le getterà lontano,
presumibilmente in segno di spregio. Esiste
in verità un'altra ipotesi che stando alla testimonianza di Allegranti
(l'addetto del
Stefano Baldi e Susanna Cambi (22 ottobre 1981)
Stefano
Baldi e Susanna Cambi
Paolo Mainardi e Antonella Migliorini (19 giugno 1982)
19/7/2019 Mostro
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pronto
soccorso della Misericordia che per primo estrasse il corpo dei ragazzi
dall'auto) il ragazzo Paolo Mainardi si trovasse anch'egli, come la ragazza, posizionato
nel sedile posteriore della Fiat 147. Da qui l'ipotesi che non fu il ragazzo a
spostare l'auto e a finire incastrato nel fossetto bensì invece l'aggressore stesso,
a seguito del concitato tentativo di allontanarsi quanto prima dal luogo
dell'omicidio. In ogni caso, la corporatura robusta di entrambi i giovani (il Mainardi
pesava più di 120 kg ed era alto quasi due metri) avrebbe reso difficile
all'assassino estrarli dall'auto rapidamente, soprattutto in una zona come quella
dove avvenne il delitto. Questo delitto si differenzia dai
precedenti in quanto il luogo in cui avviene l'aggressione non è appartato, a
pochi chilometri di distanza, nel paese di Cerbaia è in corso la festa del
Santo patrono e il traffico di auto lungo la strada provinciale è ridotto ma
costante e inoltre l'omicida, per la prima volta, non esegue le escissioni dei
feticci né infierisce sui cadaveri, probabilmente
a causa dei rischi che questa operazione avrebbe comportato, considerato che la
macchina era
visibilmente
disposta in modo innaturale sulla strada.
Il
delitto sarà infatti scoperto pochissimo dopo dagli occupanti una vettura
sopraggiunta nel frattempo. Antonella è morta, Paolo respira ancora e viene trasportato
al vicino ospedale di Empoli, dove muore il mattino seguente senza riprendere
conoscenza. In quest'occasione il giudice Silvia Della Monica, sperando di
indurre l'assassino in errore, convocò in Procura i cronisti che si occupavano
del caso e chiese loro di scrivere sui giornali che Paolo Mainardi, prima di
morire, aveva rivelato importanti informazioni utili alla ricostruzione dell'identitÃ
dell'omicida, ma tale trucco non portò ad alcun risultato positivo.
SarÃ
inoltre a seguito di questo delitto che il maresciallo Fiori, 15 anni prima in
servizio a Signa, ricorderà del delitto avvenuto nell'estate del 1968, e
permetterà la riapertura del fascicolo in cui verranno ritrovati i bossoli
repertati quell'anno; sarà così possibile comparare i bossoli e stabilire che a
sparare nel 1968 era stata la stessa arma utilizzata nel 1982. Anche questo
evento non è privo di dettagli inconsueti in quanto, per legge, gli elementi
raccolti nel corso di un processo devono essere distrutti a sentenza avvenuta.
Va tuttavia rilevato che la pratica non è generalmente seguita nel caso in cui l'arma
del delitto non sia stata ritrovata, per l'ovvia necessità di lasciare il campo
a successive verifiche, cosa che si è in effetti verificata con i bossoli
repertati a Signa nel 1968.
Il
9 settembre 1983, a Giogoli, vengono assassinati due turisti tedeschi, Jens-Uwe
Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, entrambi di 24 anni, studenti presso l'UniversitÃ
di Münster che al momento dell'aggressione si trovano a bordo del loro furgone
Volkswagen T1 con l'autoradio accesa. I ragazzi vengono raggiunti e uccisi da sette
proiettili, sparati con una certa precisione attraverso la carrozzeria del
furgone, ma verranno messi a referto solo 4 bossoli dei 7 che si sarebbero
dovuti effettivamente rinvenire. Le indagini successive al delitto
permetteranno di stabilire che i colpi erano stati sparati da un'altezza di
circa un metro e 30 centimetri da terra, il che fa supporre che l'assassino
fosse alto almeno 1 metro e 80, o anche di più. L'ipotesi dell'altezza del
killer superiore alla media non è però condivisa da tutti, in primis da Perugini e da
altri inquirenti[12].
L'assassino
fredda dapprima Meyer con tre colpi in rapidissima successione, mentre Rüsch
tenta inutilmente la fuga ma viene poi colpito anch'egli da quattro proiettili,
di cui uno al cervello, accasciandosi sul fondo dell'automezzo. Una volta
uccisi i due giovani, l'assassino sale sul retro del furgone ma, accortosi che le
vittime sono entrambe di sesso maschile, si dilegua senza utilizzare armi
bianche ed effettuare alcuna escissione sui corpi. In questo caso, l'assassino
è stato forse tratto in errore dai capelli lunghi e dalla corporatura esile di
Rüsch, probabilmente scambiato per una donna. Il denaro e le macchine
fotografiche delle vittime non vennero prelevate, né sembrarono mancare oggetti
di valore. Nelle vicinanze del camper furono rinvenute anche alcune riviste
pornografiche in lingua italiana a
contenuto probabilmente omosessuale, ma
non è mai stato appurato se appartenessero ai giovani, né se i due fossero
effettivamente fidanzati (o comunque amanti) oppure solamente amici.
Si
pensò quindi che il killer, non potendo essere Stefano Mele - detenuto nel
periodo in cui il "mostro" aveva continuato a colpire - e neppure
Francesco Vinci, potesse invece essere un altro personaggio appartenente alla
loro cerchia di frequentazioni e conoscenze. Furono pertanto indiziati e
inquisiti Giovanni Mele, fratello di Stefano, e Piero Mucciarini, cognato di
Giovanni Mele[38].
Sulla base di nuove rivelazioni di Stefano Mele, che in alcune deposizioni
accusò il fratello e il cognato di aver partecipato all'omicidio della moglie[39], e con l'aggravante di alcuni indizi
materiali (tra cui un bisturi in possesso di Giovanni Mele), Piero Mucciarini e
Giovanni Mele restano per otto mesi detenuti con l'accusa di essere gli autori dei
duplici omicidi[39].
I due verranno poi scarcerati, per uscire
Antonella
Migliorini e Paolo Mainardi
Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch (9 settembre 1983)
Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe
Rüsch
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definitivamente
dall'inchiesta[40],
non essendoci a loro carico indizi tali da giustificarne il rinvio a giudizio,
e soprattutto essendo i due detenuti in carcere nel periodo in cui fu commesso
l'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini[41][42]. Per un certo periodo venne indagato per gli omicidi anche
Salvatore Vinci, fratello di Francesco[43][44]. Stefano Mele morì nel 1995 per una crisi cardiaca sopravvenuta a
seguito di un intervento chirurgico, mentre risiedeva in uno ospizio per ex
detenuti a Ronco all'Adige, presso Verona[45]. Le vittime del penultimo delitto del Mostro di Firenze sono
Claudio Stefanacci, studente universitario di 21 anni, e Pia Gilda Rontini di
18 anni, da poco tempo impiegata presso il bar della stazione ferroviaria di
Vicchio e majorette nella banda musicale del paese. L'auto dei giovani, una
Fiat Panda celeste del ragazzo, è parcheggiata in fondo a una strada sterrata
che si diparte dalla strada provinciale Sagginalese, contro il terrapieno di
una collina. Quando
vengono
aggrediti, i due ragazzi sono seminudi sul sedile posteriore dell'auto.
L'omicida spara attraverso il vetro della portiera destra colpendo il ragazzo quattro
volte (di cui una alla testa), e due volte la ragazza che aveva tentato la fuga
(uno alla schiena e uno alla fronte)[46]. In seguito l'assassino infierisce con diverse coltellate sui
corpi dei due ragazzi, colpendo due volte alla gola Pia e una decina di volte
Claudio. Alla ragazza vengono asportati il pube e il seno sinistro. VerrÃ
ritrovata con il proprio reggiseno ancora serrato tra le dita della mano destra[46]. La
catenina che portava è stata strappata ed è stato sottratto il pendente a forma
di croce. In questo caso la borsetta non è stata frugata né manomessa,
presumibilmente perché nascosta sotto il sedile del passeggero. La madre del ragazzo, impensierita del ritardo, lo va a cercare
dagli amici che, conoscendone le abitudini, vanno a cercarlo dove sapevano che
si appartavano in auto, scoprendo così i cadaveri[46]; anche la madre della ragazza era preoccupata per l'insolito
ritardo della figlia che al momento di uscire di casa, poco dopo le 21, aveva
promesso di rientrare entro un'ora essendo stanca per aver lavorato tutto il
giorno[24]. Anche in questo caso pare che la
vittima femminile avesse subito molestie da parte di ignoti nei giorni
precedenti al delitto. Un'amica di Pia, conosciuta durante un soggiorno di
studio in Danimarca e che in seguito aveva intrattenuto con lei relazioni di
corrispondenza, riferì tempo dopo di aver ricevuto una telefonata dalla
giovane, pochissimo tempo prima del delitto, in cui Pia le riferiva che nel bar
dove lavorava "c'erano persone poco piacevoli
assieme alle quali si sentiva molto insicura"[47]. Tale fatto sembra peraltro
avvalorato da un riscontro raccolto in una fase successiva al delitto;
Bardazzi, gestore di una tavola calda in località San Piero a Sieve, aveva
dichiarato di
riconoscere
nei due fidanzati uccisi una coppia che nel pomeriggio del 29 luglio 1984,
poche ore prima dell'omicidio, si era intrattenuta presso il suo locale. Subito
dopo loro, secondo il teste, era arrivato un "signore distinto",
alto, corpulento, sguardo intenso, in giacca e cravatta, dai capelli rossicci,
che aveva ordinato una birra e si era seduto all'esterno del locale, senza
staccare gli occhi dalla ragazza. Non appena i giovani avevano terminato di
mangiare e si erano avvicinati alla cassa, l'uomo aveva bevuto d'un fiato la
birra e si era accodato a loro. Invitato a partecipare ai funerali delle
vittime, tuttavia, non lo riconobbe tra i presenti[24]. Secondo la testimonianza resa nel
2017 da Giampiero Vigilanti, Pia Rontini sarebbe stata uccisa "per un
rifiuto"[48].
Nel processo a Pacciani il teste Bardazzi venne ascoltato dal PM Canessa, che
mise in luce alcune incongruenze nella sua testimonianza; dando per scontata la
sincera volontà di collaborare da parte di Bardazzi non venne però considerata
credibile
la sua deposizione, in quanto non coincidevano innanzitutto i tempi di
spostamento della coppia dei ragazzi rispetto al tragitto casa-locale
Bardazzi-luogo di lavoro di Pia Rontini, e in più lo stesso Bardazzi al
processo non si dimostrò così certo di riconoscere i ragazzi e la loro auto
parcheggiata davanti al locale. Nel marzo del 1994 le croci piantate sul luogo
del delitto dal padre di Pia, Renzo Rontini, in memoria dei due giovani
assassinati sono state danneggiate da ignoti[49]; Renzo Rontini si è impegnato profondamente per la ricerca della
verità sul caso fino alla sua morte, avvenuta per un attacco cardiaco nel
dicembre 1998[50].
L'ultimo
duplice delitto (quello su cui si hanno più particolari e riscontri[51]) avviene nella campagna di San
Casciano Val di Pesa, in frazione Scopeti, all'interno di una piazzola attigua
a un cimitero e attorniata da cipressi, in cui erano solite appartarsi le
coppie[52]. Le vittime sono due giovani
francesi, Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne di origini
georgiane, e la trentaseienne Nadine Mauriot (la vittima più anziana del
mostro), titolare di un negozio di calzature, madre di due bambine piccole
recentemente separata dal marito, entrambi provenienti da Audincourt, una
cittadina dell'est della Francia.
Claudio Stefanacci e Pia Rontini (29 luglio 1984)
Claudio
Stefanacci e Pia Rontini
Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot (7/8 settembre 1985)
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Le
vittime sono accampate in una piccola tenda a poca distanza dalla strada.
L'omicidio è stato fatto risalire da taluni alla notte di domenica 8 settembre
1985, da altri a quella tra sabato 7 settembre e domenica 8 settembre 1985,
considerazione motivata con la presenza sui cadaveri delle vittime di larve di
mosca che necessitano di almeno 25 ore di tempo per svilupparsi[24] e dalle condizioni tanatologiche dei
corpi riesaminate da esperti molti anni dopo, come è scientificamente riportato
da una perizia del professor Francesco Introna[53] e, successivamente, da un reportage televisivo di Paolo Cochi[54][55]. Altro elemento fu il fatto che
Nadine Mauriot aveva avvertito i parenti in Francia che sarebbe rientrata dalla
vacanza al più tardi la domenica sera per riuscire ad accompagnare al primo
giorno di scuola le figlie il lunedì successivo, e riaprire nel contempo il
negozio di sua proprietà [56].
Una coppia che si era appartata nella piazzola del delitto nelle prime ore del
pomeriggio di domenica 8 settembre 1985 riferì di aver notato la tenda delle
vittime, all'interno della quale sembrava esservi una persona distesa;
riferirono anche di un nugolo di mosche e di cattivo odore nella zona, tanto che proprio per tali motivi i due ragazzi decisero
di andarsene da quel luogo[24].
Le modalità dell'aggressione sono simili a quelle precedentemente messe in
pratica dall'omicida, eccettuato il fatto che, in questo caso, le vittime non
si trovavano in auto ma in una tenda piantata vicino alla propria auto:
l'assassino, dopo aver reciso con un coltello il telo esterno della tenda sulla
parte posteriore, si sposta verso l'ingresso della tenda e spara. Nadine muore
subito; Jean-Michel, ferito non mortalmente, riesce a uscire dalla tenda e a
fuggire verso il bosco, ma viene raggiunto dall'omicida che lo finisce a
coltellate e poi ne occulta il corpo, cercando di nasconderlo tra alcuni
rifiuti in un posto poco distante dalla tenda[57]. Dopo averlo estratto dalla tenda per effettuare le mutilazioni
sul pube e sul seno sinistro, anche il cadavere della donna viene in qualche
modo occultato e risistemato all'interno della tenda in modo che non sia subito
visibile. Il modus operandi particolare attuato dall'omicida in quest'ultimo
delitto lascia presupporre che l'assassino avesse l'intento di ritardare il più
possibile la scoperta dei corpi. Un brandello del seno della ragazza viene
spedito alla Procura della Repubblica di Firenze in una busta anonima con l'indirizzo
composto da lettere di giornali ritagliate, indirizzata a Silvia Della Monica,
PM incaricato delle indagini sul killer[58]. La scoperta dei corpi avverrà nel tardo pomeriggio di lunedì
grazie a un
cercatore
di funghi, appena due ore prima che la lettera giunga in Procura, vanificando così il possibile perfido piano dell'omicida, che
probabilmente voleva annunciare agli inquirenti l'avvenuto ultimo duplice
delitto attraverso la sua stessa macabra missiva.
Poche settimane dopo, il 2 ottobre, giunsero in Procura tre buste anonime
indirizzate ai tre sostituti procuratori Pier Luigi Vigna, Paolo Canessa e
Francesco Fleury, contenenti la fotocopia di un articolo de La Nazione, una cartuccia
marca Winchester calibro .22 serie "H" e un foglietto di carta bianco
piegato in due con scritto «Uno a testa vi
basta». Gli esami biologici evidenziarono
che sui lembi delle tre buste c'erano tracce di saliva che diedero esito
positivo di appartenenza a soggetto con gruppo sanguigno A. Non esiste però
alcuna certezza che questo messaggio sia stato inviato dall'assassino,
poiché
esso non conteneva alcuna prova inequivocabile della provenienza da parte del
responsabile e non di un mitomane. Il brandello di seno spedito al PM rimane
l'unico "messaggio" inequivocabilmente inviato dal killer agli
inquirenti[59].
Il
3 dicembre 2018 viene rinvenuta una nuova ogiva di proiettile in un cuscino
della tenda da campeggio dei due giovani francesi 33 anni dopo l'omicidio, che
consente agli inquirenti di acquisire nuove informazioni e smentire o
confermare le molteplici teorie sui possibili responsabili[60][61][62]. Il primo omicidio della serie,
quello del 1968, si riteneva fosse stato commesso dal marito della vittima,
Stefano Mele, il quale, anche se fra alcune contraddizioni, fu reo confesso del
duplice omicidio e
venne
condannato. Nel 1982, quando ancora si era convinti che il primo delitto della
serie fosse quello del 14 settembre 1974, vennero ritrovati nell'archivio del
tribunale di Firenze, alcuni bossoli che risultarono alle analisi dello stesso
usato dal Mostro e quindi si dedusse che la pistola usata da questi era la
stessa usata per compiere gli omicidi del 1968. Grazie a questa scoperta,
avvenuta subito dopo l’omicidio del 1982, le indagini si indirizzarono lungo la
"pista sarda".[26] Il
ritrovamento dei bossoli del 1968 spinse gli inquirenti ad aprire un’inchiesta
che nel corso degli anni ottanta rappresentò il principale filone di indagine.[26] Il primo duplice omicidio attribuito
al mostro era quindi quello del 1968, maturato nell'ambiente degli immigrati
sardi in Toscana. Il delitto del 1968, che aveva già un movente e un colpevole
reo confesso che dopo aver confessato, aveva però ritrattato, accusando alcuni
amanti della moglie, tutti di origine sarda; successivamente il marito cambiò
nuovamente versione
Jean-Michel
Kraveichvili e Nadine
Mauriot
Indagini
"Pista sarda"
19/7/2019
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confessando
l'omicidio; inoltre la pistola non era mai stata ritrovata.[26] Successivamente al delitto del 1982,
grazie a una comunicazione anonima che aveva portato gli inquirenti a collegare
i delitti del 1974, 1981 e 1982 a quello avvenuto nel 1968 grazie ai bossoli
che risultarono sparati dalla medesima pistola, le indagini si rivolgeranno
nuovamente verso Francesco Vinci, già chiamato in causa anni prima da Stefano
Mele che era stato riconosciuto colpevole dell'omicidio del 1968.[63][64][65] Gli investigatori interrogarono Mele
che tornò ad accusare Francesco Vinci che nell'agosto 1982 era in carcere per
maltrattamenti alla moglie - Vinci era stato a suo tempo amante della moglie di
Mele e aveva addirittura abbandonato la famiglia per vivere con la donna,
venendo denunciato da questa, per abbandono del tetto coniugale e concubinato[66] e venne pertanto posto in stato di
fermo con l'imputazione di maltrattamenti al coniuge[67] - e mentre è in carcere, due mesi
dopo venne anche accusato
di
essere il “mostro” ma poi avvenne un nuovo omicidio, quello del 1983, e venne
quindi scagionato dall'accusa[68];[64] anni
dopo fu trovato assassinato, nel 1993,[64] insieme a un amico, Angelo Vargiu, in una pineta nei pressi di
Chianni; i loro corpi, incaprettati, erano stati rinchiusi nel bagagliaio di
una Volvo data alle fiamme; si ipotizzò un collegamento con la vicenda del
"mostro", ipotesi però quasi subito scartata[69]; più probabilmente, date anche le
modalità del delitto, era da ritenersi una vendetta nata in ambienti malavitosi
sardi attorno ai quali pare che Vinci gravitasse. Il caso è rimasto sostanzialmente
insoluto.[70] Il giornalista Mario Spezi scoprì che
non era rimasta traccia dell'informazione anonima che, nell'estate del 1982,
dopo l’omicidio, aveva suggerito agli inquirenti il collegamento tra i delitti
del mostro e quello del 1968, per il quale era già stato condannato il marito
della vittima.[65] L'inchiesta
si chiuse nel 1989 con un nulla di fatto.[26]
Dopo
l'omicidio del 1985 (l'ultimo della serie) le indagini proseguirono ma, fino al
1991, non ci furono sviluppi significativi. La SAM (Squadra Anti-Mostro), il
pool di forze dell'ordine che indagava esclusivamente sugli omicidi del mostro
dal 1984, era capeggiata da Ruggero Perugini. Pietro Pacciani diventò il primo
sospettato nel 1991, mentre questi si trovava in carcere per la condanna per
stupro nei confronti delle sue due figlie; anche una lettera anonima risalente
al 1985 invitava gli inquirenti a indagare su di lui.[71] Il pool di Perugini, oltre alla
lettera anonima, aveva il nome di Pacciani schedato nel computer fra le molte
persone aventi le caratteristiche per essere l'assassino seriale.[72]
Nato
ad Ampinana il 7 gennaio 1925, ex partigiano[73] soprannominato il Vampa per via del suo carattere irascibile e per i suoi trascorsi
giovanili come mangiafuoco per le fiere paesane (che una volta gli costarono
un'ustione al viso), Pacciani è stato descritto come un uomo collerico,
depravato e brutale indipendentemente dalle accuse riguardanti i delitti del Mostro di Firenze. Nel
1951, a 26 anni, Pacciani sorprese l'allora fidanzata, Miranda Bugli (appena
quindicenne), in atteggiamenti intimi con un altro uomo, tale Severino Bonini
di 41 anni; preso dalla gelosia, uccise a coltellate il rivale costringendo poi
la ragazza ad avere un rapporto sessuale accanto al cadavere. Arrestato e
processato, dichiarerà d'essere stato accecato dal furore avendo visto la
fidanzata denudarsi il seno sinistro[74] (lo stesso che negli ultimi due delitti venne asportato alle vittime
femminili del pluriomicida). Per questo omicidio, Pacciani viene condannato a
13 anni di carcere che sconta interamente. La storia fece scalpore in Toscana,
tanto da essere raccontata dai cantastorie. L'analogia di questo delitto con
quelli del "mostro" sarà l'intuizione e l'indizio principe che
porterà gli inquirenti a indagare seriamente su Pacciani.
Gli
inquirenti si convincono, accumulando indizi, che Pacciani sia il serial killer
con la tesi che ucciderebbe le coppie per rivivere, da "vincitore",
il delitto del 1951, accanendosi particolarmente sulla donna che simboleggia
l'ex-fidanzata che l'ha tradito.[75] Gli indizi erano vari: Pacciani scriveva la parola Repubblica con
una sola B (come scritto nella busta col lembo di seno inviata dal killer nel 1985[76]), possedeva giornali e riviste che
parlavano dei delitti del Mostro di
Firenze e foto con pubi segnati a matita[77] ed aveva scritto su un foglio un
numero di targa di un'auto appartenente a una coppia che si appartava nella
zona degli Scopeti, luogo del delitto del settembre 1985.[78] Inoltre Pacciani aveva legami (alcuni
espliciti, altri più forzati) con tutti i luoghi dove avvennero gli otto
duplici omicidi; aveva vissuto e lavorato nelle due aree dove il
"mostro" aveva colpito più spesso: il Mugello e la Val di Pesa; aveva
un ipotetico legame anche con Signa (poiché nel 1968 vi risiedeva l'ex fidanzata
Miranda Bugli, che in seguito visse anche a Scandicci[79]), e Calenzano (poiché là viveva
l'amico Giovanni Faggi[80]).
Tuttavia, ciò che poteva avere teoricamente valenza probatoria, erano soltanto
tre oggetti detenuti da Pacciani: una cartuccia trovata in giardino (se
realmente fosse stata inserita nell'arma del killer[81]), un blocco da disegno e un
portasapone (se realmente fossero appartenuti alle vittime del Mostro di Firenze del
1983).[82] Era una persona sessualmente perversa
e violenta, anche dopo l'omicidio del 1951, non soltanto nei confronti della
famiglia, come quando prese a calci e colpi di pala un guardiacaccia che finì
ricoverato per 26 giorni in ospedale[83]. Pacciani, oltre a definirsi totalmente estraneo ai delitti,
voleva dare di sé anche l'immagine dell'agnelluccio
e
del
lavoratore della terra agricola (come lui stesso amava definirsi), cioè l'immagine della persona
buona e semplice, nonostante al suo paese tutti lo conoscessero invece come un
uomo assai violento, prepotente e litigioso e tanti suoi compaesani avessero
molta paura di lui e si guardavano dal frequentarlo.[84] L'opinione pubblica fu
sostanzialmente divisa in due sulla sua colpevolezza riguardo ai delitti.[85] Ciò che è biograficamente certo, al
di là delle varie teorie sull'identità del killer, è che Pacciani era un
personaggio alquanto particolare: bugiardo cronico, poeta e pittore autodidatta
per
L'ipotesi Pacciani
Pietro
Pacciani nella
prima
metà degli
anni
ottanta
19/7/2019
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hobby,
cimentatosi in mille mestieri.[86] La sua indole violenta si riversò negli anni sulla moglie,
Angiolina Manni, una donna semi-inferma di mente (bastonata e costretta a
rapporti sessuali), e sulle loro due figlie, Rosanna e Graziella,[87] tenute segregate in casa, nutrite con
cibo per cani, picchiate, violentate con falli artificiali e zucchine,
costrette a visionare foto pornografiche del padre ripresosi in pose oscene; le
due figlie se ne andarono di casa non appena diventarono maggiorenni, rompendo
definitivamente i rapporti con il padre, e poco dopo aver lasciato
l'abitazione, lo denunciarono per stupro (accusa per cui Pacciani è stato
condannato in via definitiva, restando in carcere dal 1987 al 1991).[74]
Pacciani
venne arrestato con l'accusa di essere l'omicida delle otto coppie il 17
gennaio 1993. Il 19 aprile 1994, con il collegio difensivo composto dagli
avvocati Piero Fioravanti e Rosario Bevacqua, iniziò il processo di primo
grado, presieduto da Enrico Ognibene, con l'accusa rappresentata dal sostituto
procuratore Paolo Canessa, processo che rivela anche le violenze familiari
commesse dal contadino,[6] e
che si conclude il 1º novembre 1994 con la condanna dell'imputato all'ergastolo
da parte del tribunale di Firenze con l'accusa di essere il responsabile di
quattordici dei sedici omicidi per cui era imputato (venne ritenuto non colpevole
del primo duplice omicidio del 1968).[88] Verrà però ritenuto innocente, quindici mesi più tardi, nel
secondo grado di giudizio.[89] Infatti,
il 13 febbraio 1996 Pacciani (in carcere da 1.100 giorni), nel cui collegio
difensivo si era nel frattempo aggiunto anche il famoso avvocato Nino
Marazzita, è assolto dalla Corte d'appello di Firenze per non aver commesso il
fatto e viene dunque scarcerato.[89][90] Il magistrato presidente della corte d'assise d'appello, Francesco
Ferri, critica aspramente l'impianto accusatorio contro Pacciani (mettendo poi,
nero su bianco, tutte le critiche all'indagine in un libro[91]); l'assoluzione viene chiesta anche
dal PM del processo d'appello, Piero Tony.[92] Successivamente però, il 12 dicembre 1996, la Cassazione annulla l'assoluzione
e dispone un nuovo processo d'appello,[93] che non verrà mai celebrato a causa della morte di Pacciani, il 22
febbraio 1998. Il processo d'appello a carico di Pacciani fu giudicato viziato
da un errore tecnico, che non consentì di sentire e verbalizzare le
testimonianze di quattro persone (i testi Alfa, Beta, Gamma e Delta[94]), tra i quali c'era anche Lotti, che
pochi mesi dopo si autoaccuserà di alcuni degli omicidi come complice di Vanni
e Pacciani. Per la condanna di Pacciani in primo grado sono stati valutati vari
elementi, perlopiù di valore indiziario. Intercettazioni ambientali di violenti
rimproveri alla moglie Angiolina (che in sé non provavano niente, ma che
indebolirono l'immagine di uomo mite e inoffensivo che Pacciani voleva dare di
sé), una cartuccia per pistola (in appello poi giudicata come "priva di
valore" in un' "inchiesta inquinata"[95]) compatibile con i bossoli trovati
sui luoghi degli omicidi e rinvenuta nell'orto di Pacciani,[96] alcuni oggetti che l'accusa ritenne
appartenessero ad alcune delle vittime[6][97][98] oltre alle testimonianze di alcune persone che lo riconobbero nei
luoghi degli omicidi perlopiù in veste di guardone.[99][100] Un elemento dapprima trascurato nei
processi contro Pacciani fu l'insieme dei grossi movimenti di denaro sul conto
bancario dell'agricoltore, cifre forse troppo cospicue all'epoca dei fatti per
un semplice contadino quale lui era.[101] Questo denaro venne considerato come indizio del suo coinvolgimento
solo nelle inchieste successive alle condanne ai "compagni di
merende", quando si ipotizzò che Pacciani e i suoi compari di bevute
ricevessero denaro per eseguire gli omicidi su
commissione
da parte di mandanti mai identificati.[6][102] La tesi che vuole Pacciani capo-killer mercenario su commissione è
incompatibile con quella del processo del 1994, dove Pacciani era accusato di
essere un omicida seriale solitario fin dal delitto di Signa del 1968.[103] Solo a metà degli anni novanta, con
l'arrivo a capo della Squadra mobile di Firenze di Michele Giuttari le indagini
si concentrarono più dettagliatamente anche su alcuni amici di Pacciani
coinvolti nella vicenda, Mario Vanni, Giancarlo Lotti, Fernando Pucci e
Giovanni Faggi[104][105][106] (quest'ultimo assolto, in tutti e tre i gradi di giudizio, da ogni
accusa riguardante gli omicidi[106][107][108][109]). Un altro agricoltore della zona, Giorgio Rea, venne
inizialmente sospettato per via dell'amicizia decennale che lo legava a Pacciani,
Vanni, Lotti, Pucci e Faggi, ma i sospetti caddero quasi subito nel corso di
pochi giorni.[110] A
seguito dell'assoluzione di Pacciani nel processo d'appello, la moglie decise
di andarsene da casa per non avere rapporti col marito e nel luglio dello
stesso anno avviò le pratiche per la separazione. Nel dicembre del 1996
Pacciani viene rinviato a giudizio per sequestro e maltrattamenti ai danni della
moglie.[111] In particolare gli
inquirenti addebitavano a Pacciani di aver aggredito la moglie nel 1992, al
ritorno della stessa da un interrogatorio durante il quale la signora avrebbe
rilasciato
dichiarazioni
compromettenti per il marito a causa del possesso di un fucile mai denunciato,
anche se si trattava di un'arma che non era sicuramente quella usata per i
delitti.[111] La reazione di
Pacciani fu registrata e ascoltata in diretta dalla polizia che aveva apposto
alcune microspie nella casa del contadino.[6]
Processi
Processo
a Pacciani
Pacciani
a processo, gennaio 1994
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Il
22 febbraio 1998, alla vigilia dell'inizio del secondo processo d'appello,
Pacciani venne trovato morto nella sua abitazione di Mercatale con i pantaloni
abbassati e il maglione tirato in alto fino al collo e, da un esame
tossicologico, venne rivelato che nel sangue vi erano tracce di un farmaco
antiasmatico fortemente controindicato per lui (che non soffriva di asma ed era
invece affetto da una malattia cardiaca); le circostanze sospette
dell'improvvisa morte provocarono ulteriori ombre sulla vicenda che sembrava
essersi avviata a una conclusione definitiva.[6][112] Pacciani infatti, dopo la sentenza di assoluzione di secondo
grado, era tornato ad abitare da solo nel suo casolare, dove la sera era solito
barricarsi in casa, sprangando la porta e tutte le serrande, quasi avesse timore di
qualcosa o di qualcuno (così come confermato dalle testimonianze dei vicini).[4] La sera in cui i carabinieri lo
trovarono morto nella sua abitazione, la porta e le finestre erano invece
completamente spalancate.
Le
successive intercettazioni telefoniche, relative al caso Narducci, fecero
emergere la possibilità che Pacciani fosse stato ucciso dai membri di una setta
satanica-esoterica perché colpevole di averli traditi, magari proprio da coloro
che l'avrebbero ingaggiato per i delitti.[4] L'ipotesi che Pacciani non morì per una casualità (teoria che non
ebbe poi alcuno sviluppo investigativo significativo), fu criticata da coloro
che ricordavano come il Vampa fosse, nel 1998, anziano (aveva 73 anni), pluri-infartuato e
sicuramente poco attento alla propria salute per indole naturale.[113] Pacciani fu sepolto nel cimitero di
Mercatale in Val di Pesa. I suoi resti mortali vennero esumati il 17 luglio
2013 per essere destinati a una fossa comune.[114]
Uno
dei testimoni dell'accusa verso Pacciani fu Giuseppe Bevilacqua, protagonista
di un'inchiesta del 2018 della rivista "Tempi"[115] Mario Vanni, nato a San Casciano in
Val di Pesa il 23 dicembre 1927, portalettere in pensione, detto Torsolo per il suo fisico esile, è rimasto
particolarmente famoso come inventore involontario della locuzione compagni di merende, che i
media ricavarono dalla caricatura di una sua espressione. Sentito infatti come
testimone al processo contro Pacciani, il postino, alla domanda «Signor Vanni,
che lavoro fa lei?» rispose iniziando la sua deposizione in modo inatteso e
illogico dicendo «Io sono stato a fa' delle merende co' i' Pacciani no?»,
suscitando così l'ilarità generale e facendo supporre al PM che l'interrogato
fosse stato istruito a dare precise risposte. Più verosimilmente, Vanni fu
tratto in inganno dall'espressione "che lavoro fai?", che nel
dialetto toscano equivale all'italiano "ma cosa hai combinato?". Il
suo continuo, goffo e reticente riferimento a tali merende, oltre a determinarne
l'incriminazione, produsse l'ironico modo di dire, usato per indicare persone
legate da un rapporto losco o comunque poco onesto.
Vanni
viene arrestato in concomitanza con l'assoluzione, poi annullata, di Pietro
Pacciani, per concorso in duplice omicidio e vilipendio di cadavere, messo in atto
secondo l'accusa proprio assieme a Pacciani.[90][116] Durante lo svolgimento del processo Vanni ha dimostrato un
atteggiamento ostile nei confronti dei giudici, dettato in maggior parte
dall'ignoranza, dall'abuso di alcol, dalla paura e dalla sua età avanzata, che
non gli permetteva forse di comprendere lucidamente lo svolgersi delle udienze.
Viene spesso richiamato e allontanato dall'aula, fino ad essere espulso dopo
aver minacciato il PM Paolo Canessa con
l'espressione
«poi ci sarà il Signore che punirà il signor Canessa
co' un malaccio 'nguaribile che gli toccherà patire come un cane» e aver vantato la sua fede politica per Mussolini gridando in
aula «Viva il Duce, il lavoro e la
libertà ! Ritorneremo! Prima o dopo».[6] Tuttavia, il suo avvocato difensore
Nino Filastò riuscì in seguito a farlo riammettere in aula.
Vanni
fu condannato al carcere a vita. La condanna, per soli quattro degli otto
duplici omicidi, è stata resa definitiva nel 2000 dalla Corte di Cassazione.
Nel 2004 la pena gli venne sospesa per motivi di salute, in quanto affetto da
demenza senile. Vanni trascorse i suoi ultimi cinque anni di vita in una casa
di riposo per anziani non autosufficienti a Pelago, in provincia di Firenze.
Ricoverato il 12 aprile 2009 nell'ospedale di Ponte a Niccheri morì il giorno
dopo, all'età di 81 anni.[117] Le
esequie si tennero il 15 aprile nel cimitero di San Casciano in Val di Pesa
dove fu poi sepolto, alla presenza della sorella, dei nipoti e di alcuni amici.[118]
Processo ai "compagni di merende"
Mario Vanni
Mario
Vanni, colui che peraltro diede
origine
all'espressione compagni
di
merende, qui
agli arresti domiciliari,
24
dicembre 1997.
Giancarlo Lotti
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Giancarlo
Lotti, detto Katanga, fu condannato a 30 anni di reclusione per i delitti del Mostro di Firenze; come
Mario Vanni era nato anch'egli a San Casciano in Val di Pesa il 16 settembre
del 1940. Rimasto orfano di entrambi i
genitori in giovane età e isolato dagli altri suoi parenti, era un disoccupato
che in precedenza aveva sempre svolto solo piccoli lavori saltuari. Alcolista
fin dall'adolescenza e con problemi intellettivi, viveva solamente grazie agli
aiuti della locale Caritas, grazie alla quale aveva trovato anche un alloggio
dove poter vivere. Lotti rese confessione agli
inquirenti[6] costretto dalla testimonianza
dell'amico Fernando Pucci, che indicò di aver visto il delitto di Scopeti del 1985
e di essere stato lì condotto da Lotti stesso: «La visibilità non era male perché c'era la luna crescente, quella
buona perché nascano i funghi. Appena ci si avvicinò vedemmo due persone tra la
macchina che ho detto e la tenda. Una era più bassa e tarchiata e l'altra era
più alta. Quello tarchiato aveva in mano una pistola. Quello più alto aveva in
mano un coltellone da cucina. Quello tarchiato ci vide e ci disse subito
dietro: Vi ammazzo, vi ammazzo, andate via! Noi si girò le spalle e si scappò.
Quando si fu tornati all'altezza della macchina io ero parecchio
impaurito. Uno dei due mi parve il Vanni, anzi era sicuramente il Vanni. Quello
tarchiato con la pistola, lo riconobbi per il Pacciani.»"
[119]Lotti ammise quindi di essere stato presente al delitto, accusando
Pacciani e Vanni. Successivamente, individuato come presente anche a delitto
del 1984, incastrato da alcune intercettazioni (in particolare quelle con le ex
prostitute Nicoletti e Ghiribelli) si è autoaccusato anche di quel crimine,
come dei due precedenti del 1982 e 1983. In particolare nell'omicidio dei due
ragazzi
tedeschi del 1983 dove avrebbe sparato.[120] minacciato da Pacciani stesso. Le testimonianze di Lotti, come reo
confesso, vennero ritenute decisive in tutti i gradi di processo sui Compagni
di Merende, benché l'imputato avesse mantenuto un atteggiamento ambiguo e
reticente come risulta dalla sentenza di primo grado: «(...) lo stesso Lotti, di fronte a certi risultati delle indagini
che lo inchiodavano alle sue responsabilità , ha cercato soltanto di uscirne col
minor danno possibile, ammettendo i fatti e dando indubbiamente un contributo
in ordine alla condotta dei suoi complici, però soltanto nell'ambito del
chiarimento dei singoli episodi di duplice omicidio, per i quali è stato raggiunto
da elementi probatori. Inoltre, si è ben guardato dal fare i nomi di altri
personaggi, che pur esistono nella presente vicenda (...)»[121].
Risulta
infondata la tesi secondo cui Lotti sarebbe stato un soggetto suggestionabile,
ritardato, mitomane e che quindi le sue dichiarazioni fossero per questo motivo
non attendibili. Scrive il giudice nella sentenza di Appello, citando le
perizie cui l'imputato fu sottoposto: «Vale
la pena allora subito ricordare che il detto individuo (il Lotti Giancarlo appunto)
sottoposto a perizia da consulenti del Pubblico Ministero - l'incarico venne
affidato ai Proff. Ugo Fornari e Marco Lagazzi, medico specialista in
psicologia e professore di psicologia giudiziaria presso l’università di Genova
il secondo e medico specialista in psichiatria e professore ordinario di
psicopatologia forense presso l’università di Torino il primo, nel corso delle
indagini preliminari, e stato dichiarato soggetto “lucido, vigile cosciente,
perfettamente orientato nel tempo, nello spazio, nei confronti della propria
persona e della situazione in esame”. Si legge nel medesimo elaborata che
"... il patrimonio intellettivo non appare certo brillante, specie a
livello di intelligenza teorico-astratta, ma è caratterizzato da buona abilitÃ
di comprensione e di gestione dei problemi pratici e concreti... non si
rilevano segni di deterioramento mentale, come, attestato dalla vivacità e non
esauribilità della attenzione, dalla modulazione dei pensiero, dalla prontezza
e pertinenza delle risposte, dalla capacità di analisi e di critica e dalla
stessa reticenze opposta a taluni argomenti...»[122]. Inoltre lo stesso giudice così ha
riportato in relazione alla paventata possibilità che Lotti avesse potuto
auto-accusarsi per ottenere dei benefici: «il sospetto che questi abbia pensato di risolvere i problemi della
sua vita scontando 30 anni di reclusione ma contento di ciò per i vantaggi che
la legge riserva ai collaboratori di giustizia,
ebbene tale cosa appare a questo giudice priva di senso perché del
tutto indimostrata innanzitutto e contraria al buon senso comune in secondo
luogo»[123]. Va detto che la difesa di Mario Vanni (Avv. Nino Filastò)
evidenziò alcune incongruenze nella ricostruzione dei delitti fatta da Lotti,
non accolti dal giudice. Lotti è stato definito: "persona intrinsecamente credibile non soltanto per quanto attiene
i propri comportamenti criminali ma anche per quanto riguarda i delitti
commessi dai suoi complici. D'altro canto le sue dichiarazioni accusatorie sono
apparse sempre riscontrate in maniera precisa e inconfutabile"[124].
Lotti non ha ottenuto, come richiesto dal suo legale, alcun beneficio come
collaboratore di giustizia, non essendo riconosciuto come tale dai giudici. La
sua condanna è stata di 26 anni di reclusione. Venne scarcerato il 15 marzo
2002 per gravi motivi di salute e il 30 marzo successivo, all'ospedale San
Paolo di Milano, morì a 61 anni per via di un tumore al
fegato,
da cui era afflitto da molto tempo, a causa del suo alcolismo decennale.[125] Lotti fu sepolto nel cimitero di San
Casciano in Val di Pesa. I suoi resti mortali vennero esumati il mattino del 3 dicembre
2015.
[126]Nato a Montefiridolfi l'8 novembre del 1932[127] era amico dei tre "compagni di
merende", con una invalidità civile riconosciuta nel 1983 per oligofrenia,
ed è stato un teste decisivo nella vicenda e nelle condanne ai Compagni di Merende.
Riguardo alle sue condizioni venne redatta una nuova perizia affidata ai
consulenti Lagazzi e Fornero che vennero incaricati di accertare se realmente
Pucci fosse affetto da qualche invalidità e così si espressero: "Il patrimonio intellettivo è apparso povero ma non
propriamente così deficitario come risulta dalla patologia accertata dalla
commissione per gli invalidi civili nel lontano 1983...attenzione vigile e
memoria valida senza cenni di cedimento o di rallentamento o di
intorpidimento... Il pensiero è poco ricco di contenuti, piuttosto monotono e
poco modulato. I nessi logici sono comunque conservati e i contenuti sono
sempre risultati pertinenti al contesto in esame. Non disturbi formali o
deliranti dell'ideazione...affettivamente è apparso povero
Fernando Pucci
19/7/2019
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e lievemente iposintonico ma capace di stabilire un rapporto
adeguato con gli esaminatori ...non disturbi a carico del rapporto con la
realtà e con gli altri"[128]. Quindi secondo le valutazioni,
raccolte dal giudice, non esisteva motivo perché tale soggetto non fosse in
grado rendere una testimonianza. Depose contro Pacciani e Vanni come testimone
oculare degli ultimi due omicidi (quello del 1984 a Vicchio e quello del 1985
agli Scopeti)[129]:
"Per guardare cosa accadeva senza essere
notati girammo un po' tra le frasche per arrivare al lato della macchina
parcheggiata vicino alla tenda. Poco dopo vedemmo questa scena: uno dei due,
quello più alto, cioè il Vanni, andò dietro la parte posteriore della tenda e
con quel coltellaccio da cucina che aveva in mano tagliò il tessuto. Ricordo
anche il rumore che fece, come di tela strappata. Il gesto che io vidi mi
sembrò come fatto dal basso verso l'alto. A questo punto l'uomo uscì dalla
tenda, dalla parte anteriore, scappando verso il bosco, cioè dalla parte
opposta della strada. L'altro che aveva la pistola, cioè il Pacciani, gli sparò
e gli andò dietro mentre quello scappava, ontinuando a sparare"[130]. Le dichiarazioni di Pucci hanno lasciato dei dubbi, il teste è
arrivato a parlare per gradi, all'inizio appariva reticente. Inoltre in aula la
difesa ha cercato di inficiarne le dichiarazioni, essendo il teste fondamentale
nel corroborare le chiamate in correo di Lotti.[131] Fernando Pucci muore il 25 febbraio 2017, all'età di 84 anni.[132] È sepolto nel cimitero di
Montefiridolfi, frazione di San Casciano in Val di Pesa.
Le
indagini sui delitti del "mostro" e sui compagni di merende hanno
successivamente condotto gli inquirenti a ipotizzare l'esistenza di mandanti
dei delitti.[133] Tale ipotesi si
basa su alcune dichiarazioni del teste e imputato Giancarlo Lotti, il quale
dichiarò nel processo che i feticci escissi dai corpi femminili sarebbero stati
comprati da un ignoto "dottore"[6], e sul ritrovamento di un possibile simbolo esoterico, una
piramide tronca di granito colorato (una rara varietà di una pregevole pietra
ornamentale, nota come breccia africana) di circa quindici centimetri, rinvenuta ad alcuni metri dai
corpi esanimi dei ragazzi uccisi in occasione del delitto dell'ottobre 1981.[134] Occorre però ricordare che tale
oggetto viene spesso usato come fermaporte nelle campagne toscane. Infatti, secondo
Spezi era un fermaporte d'uso comune in Toscana.[135]
Altri
presunti riscontri di un possibile movente magico-esoterico si sono avuti in
occasione dell'ultimo delitto della serie, quello del 1985; pochi giorni prima
di essere assassinati le due vittime si erano accampate in zona Calenzano ma
erano stati invitati ad andarsene da un guardacaccia, in quanto il campeggio
libero non era consentito in quella zona.[6] In seguito lo stesso guardacaccia aveva rinvenuto, poco distante
dal luogo in cui i due si erano accampati la prima volta, tre cerchi di pietre,
di cui due aperti e uno chiuso, contenenti bacche, pelli di animali bruciate e
croci di legno. Secondo il parere di alcuni inquirenti tali cerchi di pietre
potrebbero essere ricondotti a pratiche di tipo rituale, da collegarsi con le
fasi di individuazione, condanna a morte ed esecuzione materiale della coppia.[6]
Tuttavia
l'episodio del guardiacaccia è stato recentemente (quando?) smentito
dall'avvocato dei familiari delle vittime, che a tal proposito ha diffuso anche
un documento Pdf liberamente consultabile.[136] Infatti non risulterebbe la presenza dei due a Calenzano dagli scontrini
che la coppia era solita conservare durante i viaggi; inoltre tutti i possibili
avvistamenti della coppia francese meritano una riflessione e il beneficio del
dubbio. Questo è dovuto al fatto che la foto della vittima francese che finì
sui giornali (cioè quella del passaporto della vittima), mostrava la donna più
giovane e con i capelli cortissimi, mentre nel settembre '85 Nadine aveva i
capelli lunghi e qualche anno in più. Ciò è stato anche documentato in un
programma televisivo.[137]
Le
frequentazioni di Pacciani e Vanni durante gli anni degli omicidi alimentarono
un filone d'inchiesta su possibili moventi esoterici e riti legati al satanismo
alla base dei delitti.[138][139][140] In particolare Pacciani e Vanni frequentavano un tale Salvatore Indovino,
sedicente mago e cartomante, presso una cascina situata nelle campagne di San
Casciano, dove, a detta di molti, si consumavano orge e riti collegabili
all'occultismo.[4] Durante
le perquisizioni eseguite dalla Polizia di Stato a casa di Pacciani sono stati
trovati almeno tre libri ricollegabili alla magia nera e al satanismo.[4] La cosiddetta pista esoterica si
riallaccia anche alle grosse somme di denaro delle quali Pacciani entrò in
possesso negli anni dei delitti, da cui nacque l'idea che i compagni di merende agissero
per conto di personalità rimaste ignote[141][142] e interessate a ricavare «feticci» dai corpi mutilati.[133] Pacciani, modesto agricoltore, arrivò
addirittura a disporre di 157 milioni di lire (corrispondenti, nel 1996, a
117.069,52
euro nel 2018[143])
in contanti e buoni postali fruttiferi, oltre ad aver acquistato un'automobile,
due case e ristrutturato completamente la sua abitazione.[4] I controlli eseguiti dalla Polizia di
Stato evidenziarono che Pacciani, prima dei delitti attribuibili al Mostro di Firenze,
versava in condizioni economicamente modeste e non ereditò beni che potessero
giustificare le somme di denaro ritenute (ma non da tutti) troppo cospicue e
improvvise per un semplice contadino quale lui era.[4] Anche Mario Vanni arrivò a disporre
di cifre importanti, anche se in misura nettamente inferiore a quelle di
Pacciani. Chi non crede a Pacciani killer
prezzolato da mandanti misteriosi rimasti
ignoti, fa notare che il contadino, oltre ad affittare un appartamento, svolgeva
molti lavori in nero ed era noto per la sua spilorceria, come sottolinea Giuseppe
Alessandri nel libro La leggenda del Vampa. Inoltre il presunto complice Lotti era tutt'altro che ricco
visto che negli anni ottanta e novanta trovava
lavoretti
e alloggio solo grazie all'aiuto del prete del paese, essendo a tutti gli
effetti un disoccupato indigente. Anche Vanni, nonostante le cifre trovate sui
suoi conti, è deceduto in una modesta casa di riposo di provincia.[144]
Ipotesi sui presunti mandanti
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Le
sentenze che condannano i compagni di
merende si basano principalmente sulle tanto
discusse testimonianze di Pucci e, soprattutto, di Lotti. Ciò ha impedito
l'individuazione di un movente certo, organico e globale, che fosse valido per
tutti i delitti. Infatti Lotti, prima di accennare al misterioso
"dottore", aveva cambiato più volte versione sui motivi per cui
Pacciani e Vanni avessero ucciso. Inizialmente Lotti, nel 1996, dichiarava
"che i delitti erano stati atti di rabbia per approcci sessuali che le
vittime avrebbero respinto".[145] Invece un anno più tardi, fornì un'altra versione sul movente, affermando
che la volontà di Pacciani sarebbe stata quella di uccidere per poi dare da
mangiare i «feticci» alle figlie.[146] Il dibattito sull'attendibilità di Lotti rimane aperto
nell'opinione pubblica, nonostante costui sia stato decisivo per ottenere
sentenze giudiziarie definitive sulla vicenda. Nel
2010 Pier Luigi Vigna, ex procuratore di Firenze occupatosi del caso, si è
dichiarato scettico sull'esistenza di un possibile secondo livello di
mandanti, a dimostrazione del fatto che le inchieste successive a quelle dei compagni di merende non
abbiano avuto sviluppi.[147] Anche
Piero Tony, sostituto procuratore generale al processo d'appello contro
Pacciani, definì ironicamente aria
fritta l'ipotesi dei mandanti.[148]
Francesco
Narducci era un medico e professore universitario di Perugia, appartenente ad
una delle famiglie perugine più facoltose e in vista, morto nel Lago Trasimeno
a 36 anni, il 13 ottobre 1985, poche settimane dopo l'ultimo delitto del Mostro di Firenze. La
morte, all'epoca, fu archiviata come incidente e la salma fu tumulata senza
procedere ad autopsia, apparendo abbastanza chiara la causa di morte per
annegamento. Si è ipotizzato che fosse il responsabile dei delitti (sulla base
di una testimonianza, ritrattata, di una domestica che lo avrebbe visto
scrivere una confessione in cui chiedeva perdono[149], e in tempi recenti sulla base di una delle controverse
"dichiarazioni spontanee" del criminale pluriomicida Angelo Izzo[150]) o, da parte di Michele Giuttari e
dell'inchiesta di Perugia, uno dei capi della misteriosa «setta» che avrebbe
commissionato gli omicidi.[151]
Il
suo coinvolgimento si fonda inizialmente sull'intercettazione telefonica di un
gruppo di pregiudicati che avrebbero minacciato una tale «Dora»[4] di farle «fare la stessa fine del
"medico ucciso sul Trasimeno"», proprio come Narducci, e sulla base
di alcune lettere anonime ricevute dagli investigatori nei mesi successivi,
nelle quali veniva collegato il medico agli omicidi.[152] In seguito furono intercettate altre
telefonate minacciose rivolte a «Dora»: in una di queste una voce femminile
(molto alterata) faceva
riferimento,
oltre al presunto omicidio di Narducci, anche all'«omicidio di Pacciani».
Secondo la voce al telefono, entrambi gli omicidi sarebbero stati commessi
dagli appartenenti a una «setta satanica», perché le vittime sarebbero state
colpevoli di averli traditi:[4] la stessa fine, nella telefonata, era minacciata anche a «Dora».[153] Il procedimento per le telefonate
intercettate proseguì e portò a una condanna patteggiata. Dichiarazioni di
persone informate sui fatti e anomalie negli accertamenti sul cadavere
ripescato dalle acque del lago Trasimeno portarono a ipotizzare che il Narducci
fosse stato assassinato. Nel 2002 venne riesumata la salma, sulla quale esami
autoptici dimostrarono la presenza di lesioni compatibili, secondo il consulente
Giovanni Pierucci dell'Università di Pavia, con lo strozzamento; ipotesi
avvalorata anche dal rinvenimento di tracce di narcotizzanti nei tessuti.[154] Proprio l'ipotizzato omicidio del
medico, legato alla sostituzione del suo cadavere[154][155]
con quello di uno sconosciuto in maniera tale da
insabbiare le indagini sulle effettive cause della morte nell'autunno del 1985,
ha dato luogo all'avvio di un'inchiesta giudiziaria da parte della Procura
della Repubblica di Perugia che ha ipotizzato il coinvolgimento di una loggia
massonica, alla quale risultava appartenere il padre di Narducci,[156] coinvolta sia nella copertura degli
omicidi del mostro che nella sostituzione del cadavere.[157][158]
Secondo Ugo Narducci invece, il figlio Francesco si tolse
volontariamente la vita dopo che gli era stato diagnosticato un grave problema
di salute.[156] All'epoca, però, la
versione ufficiale della famiglia fu quella della disgrazia e, del resto,
nessuna conferma ha avuto la nuova versione della famiglia Narducci sul
suicidio motivato dalla scoperta di una malattia. Nel giugno del 2009, una
parte dell'inchiesta relativa alle modalità della morte del medico perugino è
stata archiviata dal GIP del capoluogo umbro.[159] Per Mario Spezi e Francesco Calamandrei, indagati insieme ad altri
nella vicenda, il GIP ha archiviato a norma dell'art. 125 disp. att. c.p.p.,
cioè per insufficienza e contraddittorietà degli elementi.[160]
Per
quanto riguarda la morte per omicidio di Francesco Narducci, il GIP (Dott.ssa
Marina de Robertis), nel procedimento n. 1845/08/21, ha disposto
l'archiviazione (accogliendo la stessa richiesta del pubblico ministero, Dott.
Giuliano Mignini). Comunque, bisogna sottolineare che il GIP, nell'ordinanza
con cui ha disposto l'archiviazione per insufficienza di prove,[161] ha accolto e confermato i risultati
delle indagini svolte dalla Procura di Perugia[161], stabilendo altre sì che Narducci era stato ucciso,[161] che il cadavere ripescato il 13
ottobre 1985 non poteva essere quello del medico ma quello di uno sconosciuto,[161] che il
Narducci era morto in circostanze di tempo e di luogo completamente diverse tra
loro e che non era annegato.[161] Sempre secondo il GIP, Narducci era
risultato coinvolto negli ambienti nei quali erano maturati i delitti del Mostro di Firenze.[161] Per quanto riguarda, invece, la gran
parte dei reati «minori», tra i quali quelli di soppressione e occultamento di
cadavere e
uso
illegittimo e soppressione di svariati documenti, il GIP ha riconosciuto la
maturata prescrizione in relazione agli indagati principali.[161] L'ordinanza di archiviazione è stata
impugnata in Cassazione dal padre e dal fratello del medico morto ma la Corte
stessa ha dichiarato inammissibile il ricorso.[161] In particolare il GIP De Robertis, nell'ordinanza con cui ha
accolto la richiesta di archiviazione per
Possibili collegamenti con il caso Narducci
Francesco
Narducci
19/7/2019
Mostro di Firenze - Wikipedia
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insufficienza
di prove, ha affermato che «l'ipotesi del suicidio o dell'evento accidentale è
sconfessata dagli elementi emergenti dalle consulenze tecniche».[162] Inoltre nella stessa ordinanza, con riferimento
allo scambio del cadavere di Narducci con quello di uno sconosciuto, ha
affermato che le testimonianze hanno trovato conferma nelle consulenze di
natura antropometrica, «tutte concordi sul punto essenziale: il cadavere dell'uomo
di Sant'Arcangelo non poteva essere Narducci»[162] e che «gli interrogativi sulla morte e sull'identità dello
sconosciuto rimangono».[162] Riguardo
ai collegamenti con i delitti fiorentini, «numerose sono le dichiarazioni di
persone informate che hanno riconosciuto Narducci come frequentatore
dell'ambiente legato ai delitti.»[162]
Un
altro filone dell'inchiesta, relativo al procedimento n. 2782/95/21 e alla
ipotizzata associazione per delinquere e a reati più recenti (posti in essere
da vari soggetti istituzionali e dalla famiglia, oltre che da giornalisti e
finalizzati a nasconderne l'omicidio e le sue cause e a sostituire il cadavere
e comunque a depistare le indagini attraverso la riabilitazione di piste ormai
sconfessate a livello giudiziario, come quella della cosiddetta "pista
sarda") è stato aperto dalla Procura della Repubblica di Perugia.[163] In particolare si contestava, come
s'è detto, a membri della famiglia di Narducci e a vari esponenti delle
istituzioni, il reato di associazione per delinquere finalizzata
all'occultamento di cadavere e altri reati.
I
soggetti, secondo l'accusa, avrebbero occultato le reali modalità della morte
di Narducci, sostituendo a tal fine il suo cadavere con quello di uno
sconosciuto.[163] Inoltre avrebbero
impedito l'autopsia sul cadavere, assolutamente di regola in casi simili di
sospetto annegamento: l'autopsia non fu eseguita all'epoca, ma soltanto dopo la
riapertura delle indagini da parte della Procura di Perugia. Va sottolineato
che all'epoca non furono neppure scattate foto del cadavere e le uniche
utilizzate nelle indagini erano state effettuate da un fotoreporter del
quotidiano "La Nazione". Il tutto sarebbe stato fatto, secondo la
Procura, per evitare che emergesse il coinvolgimento del medico nella vicenda
criminale fiorentina. Il 20 aprile 2010, all'esito dell'udienza preliminare
davanti al Gup di Perugia, il Dr. Micheli ha emesso sentenza di non luogo a
procedere, con diverse e articolate formule.[164][165]
Nonostante
il termine per il deposito della motivazione da parte del GUP fosse scaduto
alla data del 20 luglio 2010, solo il 20 febbraio 2012, dopo un ritardo di
quasi due anni, il GUP ha depositato la motivazione di ben 934 pagine. Il
Giudice, pur avendo dovuto valutare la possibilità di sviluppo o meno in
giudizio dell'impianto accusatorio, ha, in pratica, adottato una decisione di
merito, contestando gli accertamenti del 1985, ma anche le risultanze degli
accertamenti medico legali del Dipartimento di Medicina Legale dell'UniversitÃ
di Pavia e quelli antropometrici del Reparto investigazioni scientifiche (RIS)
di Parma e ha formulato l'ipotesi suicidiaria, escludendo un coinvolgimento del
Narducci nei duplici omicidi di coppie attribuiti al "Mostro di
Firenze".[166] Narducci
si sarebbe ucciso "stordendosi" con la meperidina, un farmaco
chiamato anche petidina.
In
meno di 15 giorni, il PM storico dell'indagine sul caso Narducci, il Dr.
Giuliano Mignini, ha impugnato la sentenza in Cassazione il 7 marzo 2012. Nel
ricorso, il PM ha censurato la totale assenza della motivazione richiesta per
una sentenza di non luogo a procedere al termine dell'udienza preliminare,
sostituita da una ricostruzione del tutto personale e di merito della vicenda,
operata dal GUP, in violazione dei limiti che la legge pone ai poteri del
Giudice dell'udienza preliminare. Inoltre, sempre secondo il PM Dr. Mignini, la
sentenza è affetta da gravi violazioni di norme sostanziali, dalla profonda
contraddittorietà della stessa motivazione di merito utilizzata dal GUP e da
altrettanto gravi incompatibilità tra diversi capi della stessa sentenza. Anche
la vedova del Narducci, Francesca Spagnoli, ha impugnato in cassazione la
sentenza Micheli. Per altri procedimenti minori, sempre legati alla vicenda, è
stato fissato il giudizio. Ancora altri filoni processuali della vicenda sono
sospesi ex
lege in attesa della definizione del
procedimento per cui è intervenuto il ricorso in cassazione del PM.
In
data 22 marzo 2013 la Terza Sezione della Corte di Cassazione accoglieva quasi
completamente il ricorso proposto dal PM Dr. Giuliano Mignini, fatta eccezione
per l'ipotesi associativa e annullava la sentenza Micheli, senza rinvio, per i
reati che, nel frattempo, erano caduti in prescrizione e con rinvio al GUP di
Perugia per le ipotesi di reato non prescritte. Durissima era stata la
requisitoria del Procuratore Generale Gaeta che aveva chiesto l'integrale
accoglimento del ricorso. Tra le ipotesi di reato che tornarono dinanzi al GUP
di Perugia, vi erano anche quelle di «calunnia e tentata calunnia aggravate»,
contestate a Mario Spezi e ad altri due imputati e che erano costate al
giornalista la misura della custodia cautelare in carcere. Nel 2014 il GUP
Giangamboni ha definitivamente assolto tutti gli imputati perché il fatto non
sussiste e per intervenuta prescrizione, accogliendo la richiesta del
procuratore generale facente funzioni Antonella Duchini, archiviando la morte
di Narducci come
probabile
omicidio commesso da ignoti.[167]
Nella
primavera del 1988 Mariella Ciulli, ex moglie di Francesco Calamandrei,
farmacista di San Casciano, si recò dai carabinieri e riferì che alcuni anni
prima, quando era ancora sposata con l'uomo, aveva trovato in casa una pistola,
precisamente una Beretta calibro 22, e nel frigorifero alcuni macabri feticci,
a sua detta provenienti dalle vittime femminili del mostro di Firenze. Subito i
carabinieri effettuarono una perquisizione in casa di Calamandrei, senza però
trovare nulla di insolito.[168] Il
21 marzo 1991, la donna si presentò nuovamente dai carabinieri per fornire
nuove informazioni.
Ipotesi Francesco Calamandrei
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Mostro di Firenze - Wikipedia
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Secondo
quanto dichiarato, Mariella Ciulli, la notte del 21 agosto 1968, si trovava in auto,
assieme al marito, nelle vicinanze di Castelletti di Signa (teatro del duplice
omicidio Lo Bianco-Locci), quando entrambi sentirono degli spari. I due videro
poi un bambino e lo portarono in salvo. La Ciulli dichiarò inoltre che il
marito era solito frequentare brutta gente (tra cui proprio Pacciani, Vanni e
Lotti), e che, la notte dell'ultimo omicidio del mostro di Firenze, questi
ritornò a casa con ferite al volto; rivelò poi che l'uomo era stato possessore
di diverse armi, che poi gettò in mare a Punta Ala, poco dopo il delitto degli
Scopeti. I carabinieri perquisirono nuovamente l'abitazione del farmacista, ma
anche stavolta non trovarono niente di sospetto o di particolare.[168]
A
causa delle sue rivelazioni non supportate da prove, la Ciulli venne ben presto
presa per una visionaria, mossa dal desiderio di vendicarsi del marito che
l'aveva lasciata per un'altra donna con la quale si era poi risposato, e
ripetute successive denunce di questa nei confronti dell'ex marito non vennero
nemmeno prese in considerazione dalle forze dell'ordine.[169] Nel 2000, inoltre, venne fatta rinchiudere
in una clinica psichiatrica perché, sulla base di alcune perizie, venne
riconosciuta come malata di mente.
Il
16 gennaio 2004 il capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari,
incaricato di ristudiare il caso del mostro, chiese al PM Paolo Canessa il
mandato per perquisire la casa dell'ex farmacista. Il 20 gennaio 2004 ebbe
luogo la perquisizione e Calamandrei questa volta venne anche notificato un
avviso di garanzia.[170] Nel
giugno 2005 Calamandrei ricevette anche una informazione di garanzia per
concorso nell'omicidio di Francesco Narducci.[168]
Il
21 maggio 2008, al termine di un processo con rito abbreviato iniziato nel
settembre 2007, Calamandrei[171][172]. accusato di essere il mandante dei delitti del mostro di
Firenze, viene assolto dalle accuse «in quanto il fatto non sussiste».[173][174][175] Sempre nello stesso
anno il GUP di Perugia decise di archiviare il fascicolo che vedeva Calamandrei
indagato, insieme al giornalista Mario Spezi, nell'inchiesta sulla morte di
Francesco Narducci. Francesco Calamandrei è morto il 1º maggio 2012, per un
malore che lo colpì nell'androne della propria abitazione, all'età di 71 anni.[176]
L'impatto
culturale e mediatico della vicenda del serial killer di Firenze, durata oltre
quarant'anni, fu notevole e causò un vasto interessamento dell'opinione
pubblica e a un'ampia produzione saggistica che ha analizzato vari aspetti del
caso proponendo anche varie ipotesi alternative a quanto accertato in sede
giudiziaria.
Ipotesi del serial killer solitario legato alla pista sarda:
Una tesi
seguita negli ultimi anni e profilata ad esempio da Mario Spezi nel libro Dolci colline di sangue del 2006, è quella secondo cui il
mostro sarebbe un
individuo legato al «clan dei sardi», già indagato marginalmente nelle vicende degli omicidi seriali. La
tesi di Spezi muove dalla ricostruzione del primo omicidio del 1968 ritenendo
che l'omicidio di Signa venne effettivamente commesso per ragioni sentimentali
e «d'onore» da parte di soggetti legati alle
famiglie Mele e Vinci, con la pistola Beretta ed i proiettili utilizzati
successivamente dal mostro. Tuttavia, il mostro sarebbe del tutto estraneo a tale vicenda
essendosi appropriato solo successivamente della pistola e le munizioni per
avviare, dal delitto del 1974, la catena seriale di omicidi.[6] Secondo Spezi solo un componente
delle famiglie coinvolte nel primo delitto del 1968 avrebbe potuto appropriarsi
di pistola e proiettili, essendo del tutto improbabile una casuale cessione, da
parte del detentore, di un'arma e di una scatola di proiettili già utilizzati in un omicidio (quello
del 1968, e quindi potenzialmente a rischio per lo stesso venditore). Sarebbe
secondo Spezi soprattutto da escludere una cessione volontaria a soggetti
estranei a quell'ambiente familiare, come pure un casuale e contemporaneo
rinvenimento da parte di terzi di pistola e proiettili.[6] Secondo il giornalista gli omicidi
sono da attribuire ad una sola persona, un serial killer che avrebbe sempre agito da solo. Va sottolineato che il «Carlo» che, secondo Spezi e il giallista Douglas Preston, sarebbe il Mostro di Firenze, è un uomo nato
nel 1959 che, all'epoca del primo delitto, aveva circa quindici anni.[177] Mario Spezi e Douglas Preston
affermano che non hanno mai ritenuto «Carlo» responsabile del delitto del 1968 e che lo stesso «Carlo» fu arrestato una prima volta nel settembre 1983 per detenzione di
armi (pochi giorni dopo l'omicidio dei due ragazzi tedeschi) e assolto. Finì di nuovo in carcere solo nel 1988,
tre anni dopo l'ultimo omicidio del Mostro. Il vero nome di "Carlo" è stato rimosso dalla versione
italiana del libro, ma era presente nella prima edizione in lingua inglese e
venne anche intervistato dalla televisione americana Dateline NBC.[178][179][180] Mario Spezi è stato arrestato nel 2006 con
l'accusa di calunnia contro la persona adombrata nel libro[39][181], commessa a fini di depistaggio
delle indagini, proprio in conseguenza della sua propensione per la Pista Sarda, cosa che
lo avrebbe portato, secondo
la tesi
accusatoria, a creare false prove al fine di portare gli investigatori sulla
strada da lui voluta.[182][183][184] Il Tribunale per il Riesame di Perugia, su ricorso dello Spezi, ha
annullato l'ordinanza di misura cautelare emessa dal GIP nei suoi confronti
sotto il profilo dubitativo sui gravi indizi di colpevolezza sul dolo della
calunnia e, sotto il profilo oggettivo, per altra ipotesi di calunnia.
Nell'istruttoria
erano caduti, per Spezi, i reati di concorso in omicidio, associazione per
delinquere, falso, occultamento di cadavere. Per l'ipotesi della calunnia, il
GUP Dr. Paolo Micheli, con sentenza 20 aprile 2010, ha dichiarato il «non luogo a procedere» contro Spezi, con formula
dubitativa sul dolo e solo il 20 febbraio 2012 il GUP ha depositato ben 934
pagine di motivazione della sentenza, un fatto assolutamente insolito per una
sentenza di «non luogo a
procedere»[185][186]. In data 22 marzo 2013, come si è visto, la sentenza del GUP Micheli è stata pressoché integralmente annullata dalla Corte di Cassazione. Per la
calunnia, mentre gli altri imputati del caso Narducci furono assolti[187], per lui venne dichiarata la
prescrizione del fatto dal GUP Carla Giangamboni, in accoglimento della
richiesta del procuratore capo.[167] Fino alla sua morte per malattia nel 2016, Spezi ha continuato a
sostenere le sue ipotesi.
Ipotesi del serial killer in divisa: Un'altra ipotesi di rilievo,
contrastante e critica con le sentenze giudiziarie, è quella espressa dell'avvocato
fiorentino Nino Filastò nel suo libro Storia delle Merende Infami.[188] Il libro, pubblicato da Maschietto
Editore nel 2005, è una sorta di contro-inchiesta sui delitti delle coppiette. Lo
scrittore-avvocato, che investiga sul mostro dai primi anni ottanta, oltre ad
essere stato il legale di Mario Vanni, tenta di dimostrare l'innocenza dei
compagni di merende con un'analisi globale su tutta la vicenda. Nel suo libro
si mettono in luce le
Ipotesi alternative alle sentenze giudiziarie
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Mostro di Firenze - Wikipedia
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incongruenze
del pentito Giancarlo Lotti e si criticano le modalità d'indagine. L'avvocato paragona la
figura del Lotti a quella di Stefano Mele: entrambi sono intellettualmente
molto modesti e suggestionabili, ma diventano a causa di un'errata (secondo
Filastò) pista
investigativa, personaggi di primo piano in due differenti periodi delle
indagini. Filastò aveva già scritto, a metà anni novanta, un saggio
sull'argomento chiamato Pacciani Innocente.[189] Nell'ipotesi di Filastò il mostro è un serial
killer di tipo lust murder affetto da una grave patologia
sessuale, attivo perlomeno dal 1968 al 1993 (omicidi Francesco Vinci - Milva
Malatesta) e mai entrato nelle indagini.[190] Alcuni elementi, come per esempio il libretto di circolazione
trovato fuori posto nella macchina di una coppietta uccisa, oppure la capacità del mostro di
avvicinarsi agevolmente alle vetture, portano l'avvocato ad inquadrare il serial killer come un «uomo in divisa». Qualcuno che potrebbe essere capace di interagire con le
indagini e, addirittura, conoscere e anticipare alcune mosse degli inquirenti.
Secondo il legale, la storia del mostro potrebbe somigliare molto a quella di
Caryl Chessman, che prima di venire giustiziato dichiarò: «Non ero io che fingevo di essere un poliziotto, era un poliziotto
vero che abbagliava le future vittime con il fanale rosso della polizia messo
sulla sua auto».[191] Radicale è anche la critica di Filastò verso le teorie «esoteriche» e «di gruppo» sulla vicenda, ritenute antistoriche e criminologicamente
incompatibili con delitti seriali di stampo maniacale. Infatti Filastò considera assurda e grottesca l'ipotesi
di una setta o un'organizzazione che usava i cosiddetti compagni di merende
come manovalanza, e in Storia
delle merende infami viene fatta una
comparazione storica tra la caccia alle streghe della Santa Inquisizione e
alcune scelte investigative intraprese nel caso.[192]
Sulla
vicenda si riscontrano anche ulteriori ipotesi, più o meno discordanti con i verdetti
dei processi. Il caso del Mostro è un evento e
un'indagine dalla durata pressoché quarantennale (dal 1968 ad oggi, con i
primi quattro omicidi ancora ufficialmente insoluti); è inevitabile
dunque una grande varietà di opinioni. Oltre alle più celebri ipotesi "non ufficiali" di Spezi o Filastò, si registrano altre teorie su chi
ha commesso i cosiddetti «delitti delle coppiette». Secondo il criminologo Francesco Bruno, il mostro sarebbe un
uomo mai individuato. Un assassino seriale d'intelligenza superiore alla media,
mosso da delirio religioso e suggestioni moralistiche, che ha agito sempre da
solo sin dal 1968.[193]
Invece
Francesco Ferri, giudice che assolse Pacciani nel processo d'appello ed autore
del polemico Il caso
Pacciani. Storia di una colonna infame?,[194] si riallaccia all'idea originaria
dell'ignoto serial
killer lust murder, ipotizzato dal profilo dell'FBI e
dalla perizia italiana di De Fazio; l'assassino sarebbe cioè una persona probabilmente affetta
da impotenza o iposessuata. Restando ancora nella gamma d'ipotesi dell'autore
unico, Ruggero Perugini (ex capo SAM) ha recentemente ribadito, in un convegno
del 2010, la sua personale convinzione secondo cui il mostro sarebbe
stato il solo serial
killer Pietro Pacciani «senza compagni
di merende né di bevute».[195][196] L'ex dirigente della Squadra Anti-Mostro, che dopo l'indagine sui
delitti delle coppiette ha lavorato negli Stati Uniti nel ruolo di ufficiale di
collegamento fra il Federal Bureau of Investigation e la Dia,[197] ha sempre sostenuto la tesi secondo
cui Pacciani uccise le otto coppiette per motivi maniacali senza alcun complice
o mandante, poiché un'intima "fantasia ossessiva" omicida è difficilmente condivisibile.[198][199]
Sul caso
sono presenti anche idee alternative più di stampo settario-cospirazionista, che vedono i delitti come
fatti di sangue legati a strategie occulte o organizzazioni internazionali:
teorie che si basano su libri romanzati e non hanno alcuna base investigativa o
tecnico-scientifica.[200] Tornando a
teorie che ipotizzano il mostro come legato alla "pista sarda", si
segnala l'idea di un detective
privato
che riporta dubbi e retroscena su uno dei primi sospettati.[201] Il criminologo ed avvocato Luca
Santoni Franchetti, che seguì il caso sin dal 1974,[202] sostenne la tesi che gli omicidi del mostro non fossero opera di
un solo assassino bensì delitti di gruppo, commessi da un clan di persone di provenienza
sarda.[203][204]
Sempre
sulla possibilità che l'assassino
fosse nell'ambiente sardo coinvolto nelle indagini degli anni ottanta, il libro
Il mostro di Firenze di Cecioni e Monastra dedica notevole rilievo alla possibilità che il mostro potesse
essere Salvatore Vinci, pur mantenendo un profilo bilanciato che valuta tutte
le teorie sul colpevole o i colpevoli.[205] Lo scontro fra «colpevolisti» (coloro che credono nella colpevolezza o nel coinvolgimento di
Pacciani e dei compagni
di merende) ed «innocentisti» (coloro che non condividono le sentenze e ritengono che il mostro non sia
mai stato catturato) ha causato, agli inizi e alla metà degli anni 2000, un clima «pesante» di scontro aspro, caratterizzato
anche da duri litigi e reciproche querele.[206][207][208]
Vincenzo
Vinagli ha sostenuto a più riprese di aver conosciuto il Mostro, e che sarebbe stato un
operaio umbro morto nel 1999, con problemi sessuali e violento, che agiva come
killer solitario.[209][210]
Un'altra
vicenda coinvolse lo scrittore Alberto Bevilacqua, in quanto tirato in ballo
dopo le dichiarazioni della poetessa Annamaria Ragno, che aveva intervistato la
sedicente sensitiva di Perugia Gabriella Pasquali Carlizzi. Le due donne furono
condannate per calunnia aggravata contro Bevilacqua, che uscì provato dalla vicenda.[211]
Ipotesi Killer dello Zodiaco:
La rivista
Tempi ha pubblicato il 19 maggio 2018[212] la prima parte di un'inchiesta giornalistica[213] nella quale si afferma che dietro al
Mostro di Firenze si celerebbe il Killer dello Zodiaco[214]. Secondo Francesco Amicone,
l'autore dell'inchiesta, il sospettato sarebbe un italo-americano residente
prima negli Stati Uniti, dove avrebbe commesso i delitti attribuiti al Killer
dello Zodiaco, e poi si sarebbe trasferito in Italia, per uccidere ancora e
guadagnarsi il soprannome di Mostro di Firenze. L'uomo, secondo l'inchiesta,
sarebbe lo stesso americano che Mario Vanni in una intercettazione del 2003
identifica con il nome di "Ulisse" e "nero" (questo
nonostante il presunto serial killer non sia di carnagione scura e non sia
conosciuto per professare tendenze politiche di destra)[215]. L'uomo, ex agente del CID del 5th
battaglione della Military Police USA, risulterebbe residente nella provincia
fiorentina a partire dall'estate del 1974, pochi mesi dopo
l'ultima
lettera ufficiale inviata dal Killer dello Zodiaco al San Francisco Chronicle[214]. Inoltre avrebbe firmato i propri
delitti e le proprie lettere facendo pesanti allusioni alla propria identità , che conterrebbe il vocabolo
italiano "acqua"[216]. Il 29
maggio 2018, lo stesso giornalista pubblica su Il Giornale [217] le presunte parziali confessioni del
presunto assassino. Il presunto serial killer, sempre secondo lo stesso
giornalista, avrebbe anche dichiarato che i suoi colleghi di lavoro del CID
erano informati della sua "seconda vita" e che non si sarebbe
costituito, nonostante il pentimento, "per evitare guai agli altri"[218]. A seguito di questi articoli,
Francesco Amicone ha denunciato[219] il cittadino statunitense di origine italiana Giuseppe
"Joe" Bevilacqua, il quale ha smentito la confessione[220]. Bevilacqua, accusato da Amicone di
essere il responsabile dei delitti del Mostro e di Zodiac, era stato
"supertestimone" dell'Accusa nel primo processo a Pietro Pacciani[115] e risiedeva a qualche centinaio di
metri di distanza dal luogo del duplice delitto del 1985.
Ulteriori teorie
19/7/2019
Mostro di Firenze - Wikipedia
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Ufficialmente
la vicenda del Mostro di Firenze termina con la condanna ai compagni di
merende. Tuttavia, una serie di misteriosi avvenimenti, accaduti sia nel periodo
dei delitti, sia negli anni precedenti e seguenti ai processi riguardanti il
caso, ha dato adito a molte supposizioni sul fatto che la vicenda non solo non
sia stata mai completamente chiarita, ma che, al contrario, abbia lasciato molti
punti oscuri. Alle 2:00 del mattino del 22 agosto
1968, il piccolo Natalino Mele di 6 anni raggiunse al buio, scalzo e scioccato,
un casolare sito ad oltre 2 chilometri di distanza da dove è parcheggiata l'automobile dove sono
stati appena uccisi la madre ed il suo amante. I calzini completamente puliti
del bambino ed il fatto che il campanello del casolare è situato ad un'altezza
irraggiungibile da
parte del
piccolo sono stati al centro di un lungo dibattito sul fatto se il bambino
avesse effettivamente raggiunto il casolare senza l'aiuto di qualche adulto. Lo
stesso Natalino, dietro minaccia dal maresciallo Ferrero di essere punito se
non avesse detto la verità , cambia versione dicendo di essere stato portato fino al casolare
dal padre.[221] Ad oggi non si sa come realmente
andarono i fatti quella notte.[222] Natalino Mele, una volta cresciuto, rilasciò un'intervista a Mario Spezi nella
quale affermò di avere nella
memoria tanti vuoti che lo avrebbero onvinto a sostenere che le sue non erano
amnesie provocate dallo choc subito da piccolo, ma qualcosa di più complesso. Egli sosteneva di essere
stato vittima di un lavaggio del cervello ma non esiste alcuna prova che tali definizioni
siano vere.[223][224] L'8 marzo 2011 la casa di
Natalino Mele e della sua compagna Loredana venne distrutta da un incendio. Da
quel momento si sono perse le sue tracce[225] fino al
2014,
quando è stato
fotografato da un giornalista mentre partecipava ad una manifestazione, sotto
il palazzo prefetturale di Firenze, contro gli sgomberi delle case occupate.[226]
Nel
gennaio 1980 un pensionato viene ritrovato morto nel parco delle Cascine di
Firenze ucciso da un corpo contundente.[227]
Il 23
dicembre 1980 il contadino Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto,
donna che era stata amante di Pacciani e Vanni, venne ritrovato impiccato nella
stalla della sua casa.[228] A detta della
moglie, autori del delitto sarebbero stati proprio Pacciani e Vanni e a
supporto di questa affermazione la donna disse che un giorno Pacciani l'aveva
minacciata dicendole «attenta a non parlare di quello che ti abbiamo fatto, ti si fa
fare la stessa fine che abbiamo fatto fare a tuo marito.»[229]
Nell'ottobre
1983, nei pressi di Fiesole in località Cave di Maiano, un cercatore di funghi vouyeurista venne
massacrato a coltellate.[227]
Il 14
dicembre 1983 la prostituta Clelia Cuscito, che si frequentava con Mario Vanni,
venne torturata con un'arma da taglio e soffocata con il filo del telefono.[230]
Tre giorni
dopo il delitto di Baccaiano, l'autista dell'ambulanza che estrasse Paolo
Mainardi ancora vivo dall'auto, sembra che abbia ricevuto una misteriosa e
inquietante telefonata da parte di un uomo che, spacciandosi per un magistrato,
cercò di ottenere
dettagli su cosa avesse detto la vittima prima di morire. Al rifiuto dell'autista
di parlare della cosa per telefono, l'uomo avrebbe cominciato a minacciarlo
qualificandosi come l'assassino. L'episodio non poté mai essere verificato quindi non è possibile affermare con certezza
sia che esso sia avvenuto sia che la telefonata sia stata realmente fatta
dall'assassino.[231]
Nel
settembre 1985, pochi giorni prima del delitto degli Scopeti, un altro uomo
venne ucciso nel parco delle Cascine di Firenze con una coltellata alla
schiena.[227]
Poco dopo
il delitto dei due giovani francesi, una donna, mentre si trovava in treno
nella zona di Scandicci, venne avvicinata da un uomo molto distinto che le
disse che in quel giorno era stato fatto pervenire al Sostituto Procuratore
Della Monica un brandello di seno di una vittima del mostro. La donna non diede
grande peso alla cosa fino a quando venti giorni dopo lesse sul giornale la notizia
della lettera anonima alla dottoressa Della Monica contenente un pezzo di seno.[223]
Francesco
Vinci, uno dei vari sospettati iniziali, fu trovato assassinato il 7 agosto
1993 insieme a un amico, Angelo Vargiu, in una pineta nei pressi di Chianni. I
loro corpi, incaprettati, erano stati rinchiusi nel bagagliaio di una Volvo
data alle fiamme. Si ipotizzò un collegamento con la vicenda del "mostro", ipotesi
però quasi subito
scartata[69]; più probabilmente, date anche le modalità del delitto, era da ritenersi una
vendetta nata in ambienti malavitosi sardi attorno ai quali pare che Vinci
gravitasse. Il caso è rimasto sostanzialmente insoluto.[70]
La
prostituta Milva Malatesta, figlia di Renato e Antonietta Sperduto (la donna
che era stata l'amante di Pacciani e Vanni), venne trovata, insieme al figlio
Mirko Rubino, di soli 3 anni, bruciata nella sua Panda il 17 agosto del 1993,
pochi giorni dopo l'omicidio di Francesco Vinci (ucciso con le stesse modalità ), che in passato era stato suo
amante. Per questo duplice omicidio venne processato Francesco Rubino, compagno
della Malatesta e padre del piccolo Mirko, che però venne assolto in tutti e tre i
gradi di giudizio per non aver commesso il fatto e tale duplice delitto è rimasto a tutt'oggi insoluto.[223][228]
Il 25
maggio 1994 la prostituta Anna Milvia Mattei, la quale conviveva con Fabio
Vinci, il figlio di Francesco, venne strangolata e bruciata nella sua casa di San
Mauro.[223][228] Dell'omicidio fu imputato
Giuseppe Sgangarella, amico di Francesco Vinci e anche di Pietro Pacciani, con
il quale aveva condiviso la cella durante la sua detenzione.[232]
Claudio
Pitocchi, operaio di Tavarnelle che aveva testimoniato al processo Pacciani,
muore in un incidente stradale l'8 dicembre 1995.[228]
Quando nel
1996 Pietro Pacciani venne assolto in appello e fece ritorno a casa non vi trovò più la moglie Angiolina Manni. La donna infatti, non volendo più avere nessun rapporto con l'uomo,
pare se ne fosse andata via di casa e nel luglio dello stesso anno avviò anche le pratiche per la
separazione dal marito. Pacciani non convinto dell'allontanamento volontario
presentò una denuncia
per sequestro di persona affermando che qualcuno (forse la locale USL) aveva
portato via la moglie e l'aveva fatta internare in una casa di cura.[32] A sostegno di questa tesi vi sono le
affermazioni di alcuni vicini di casa che asserirono di aver visto la donna
trascinata via di forza da diverse persone. Tali denunce caddero comunque nel
vuoto e la Manni non ricontattò più in alcun modo
il marito, nonostante che questi lanciò diversi appelli a giornali e televisioni, in cui chiedeva alla
moglie, inesorabilmente invano, di tornare a vivere assieme a lui.[223] Angiolina Manni è deceduta il 23 novembre 2005, in
una casa di riposo di Radda in Chianti dove risiedeva da diverso tempo, all'età di 76 anni.
Misteri connessi alla vicenda
19/7/2019
Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti
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Venne
rinvenuta nel 2011, nel deposito della polizia giudiziaria di Potenza, una
pistola dello stesso modello usato per i delitti del mostro, una Beretta
calibro 22 che secondo le indagini della scientifica potrebbe essere stata
acquistata a Sassari nel 1960 e vi sono alte probabilità che fosse quella di Stefano Aresti,
amico di Salvatore Vinci, sardo emigrato in Toscana proprio nel 1960; Vinci fu
uno dei protagonisti della pista sarda, aperta dagli inquirenti quando si scoprì che i bossoli Winchester long rifle
con la lettera "H" incisa sul fondello trovati sui luoghi degli
omicidi erano stati sparati dalla stessa pistola del primo omicidio del 1968
quando venne uccisa la moglie di Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in
Toscana.[233][234] In tutto il mondo ci sono
cinque pistole con una matricola che inizia con quelle cifre. Due sono state
vendute a New York, una a Roma ed un'altra in Campania: tutte armi ancora
possedute dai proprietari, ad eccezione di quella che Aresti non ha più in suo possesso.[234] La notizia però, col tempo, ha preso il sapore
della «bufala». Infatti l'amico/parente di
Salvatore Vinci si chiamava Franco Aresti e non Stefano.[235][236]
Successivamente
poi le analisi del RIS di Roma hanno escluso che si tratti dell'arma del mostro, poiché il modello di quest'ultima era
completamente diverso da quello della pistola rinvenuta a Potenza.[237][238]
Nel 2018
viene annunciato il ritrovamento di una traccia genetica non riconducibile alle
vittime in un reperto dimenticato dell'ultimo delitto, un fazzoletto
insanguinato, trovato all'epoca (alcuni giorno dopo il delitto degli Scopeti)
in un cespuglio assieme a dei guanti da chirurgo, su cui il professor Riccardo
Cagliesi dell'Istituto di Medicina Legale di Firenze, il 7 novembre 1985 aveva
redatto una relazione di 13 pagine, indicante che il materiale era sangue umano
di gruppo B (compatibile ad esempio con il gruppo sanguigno di Mario Vanni ma
non con quello di Pacciani) e il frammento pilifero un capello umano, color
castano, come i capelli ritrovati sui corpi di Susanna Cambi e Stefano Baldi,
vittime del 1981. Il reperto era stato poi dimenticato; a fine luglio 2017, la
procura di Firenze ha fatto eseguire l'esame del DNA, da confrontare con quello
dei sospetti e dei condannati in via definitiva. Reperti genetici attendibili
sono stati estratti anche dalle buste inviate ai
magistrati
dal killer[239], così come è stata ordinata una nuova analisi forense-balistica di tutti i bossoli
ancora conservati.[26]
Il 29
maggio 2018, come già detto, un giornalista de 'Il Giornale' afferma di aver raccolto
la confessione di un ex funzionario americano, il quale sosterrebbe di essere
sia il Mostro di Firenze che il killer dello zodiaco, ma l'ipotesi è facile da scartare.
Nel 2019
viene reso nota una perizia secondo la quale l'arma del Mostro potrebbe non
essere stata la famosa Beretta calibro 22 ma un'arma modificata o un'altra
calibro 22, o la stessa Beretta ma con la canna sostituita.[240]
Giampiero
Vigilanti, un ex legionario, nato nel 1930, residente a Prato ed originario di
Vicchio del Mugello che conosceva Pacciani (suo compaesano, con cui, a suo
dire, nel 1948 ebbe una lite e uno scontro fisico in cui Pacciani ebbe la
peggio ricevendo una bastonata in testa[241]), è stato iscritto nel registro degli indagati nel 2017; era giÃ
stato perquisito nel settembre del 1985, tre giorni prima della prima
perquisizione a Pacciani e pochi giorni dopo l'ultimo delitto, a seguito della
segnalazione di alcuni vicini che lo indicarono come possibile responsabile dei
delitti del mostro, e per il fatto che la sua automobile somigliava a quella
vista quando venne realizzato l'identikit; nella sua abitazione furono trovati alcuni
ritagli di giornali sui delitti; egli era conoscente di quasi tutte le persone
implicate a vario modo nella vicenda, compresi i compagni di merende, i sardi e
Narducci[242]; negli anni '50 aveva combattuto in
Indocina con la legione straniera francese in cui si arruolò nel 1952[241], venendo anche, secondo il suo
stesso racconto, sepolto vivo[243] dai Viet Minh, restando loro prigioniero per 20 giorni.[244] Il maresciallo Antonio Amore, che lo
perquisì la prima volta, vide in casa sua una foto dove Vigilanti posava
accanto a cadaveri decapitati di nemici, e con in mano una testa mozzata,
rimanendone impressionato. Vigilanti ha dichiarato di aver ucciso circa 300-500
nemici durante la guerra d'Indocina.[241] Dopo aver lasciato la legione nel 1960, lavorò come comparsa nel
cinema, aprì un nightclub a Marsiglia, fece diversi lavori e poi si impiegò in
un'impresa di pompe funebri a Prato fino alla pensione.[241]
Un
testimone del 1984 disse che una persona osservò le vittime Claudio Stefanacci
e Pia Rontini con insistenza prima del delitto; quest'uomo fu descritto come
persona alta, robusta, vestita elegante, e con un grosso anello al dito, come
l'anello legionario portato da Vigilanti, e, invitato a partecipare ai
funerali, non venne. Tuttavia l'anello originale andò perso.[242] Amore riscontrò anche una somiglianza
con l'aspetto del killer, ma il legionario non fu indagato, benché si trovasse
nel 1986 nella stessa lista di 38 sospetti stilata dalla polizia e dalla SAM di
Ruggero Perugini, in cui si trovava anche Pietro Pacciani (Vigilanti al numero
38, Pacciani al 31).[245] Vigilanti
ha dichiarato nel 2017 che Pia Rontini fu uccisa "per un rifiuto"[48], ed era
molestata
da un medico.[246]
Sviluppi
successivi della vicenda
Giampiero
Vigilanti
Giampiero
Vigilanti mostra al fotografo di un
giornale
la pistola High Standard calibro 22 e una
vecchia
foto della Legione Straniera (1998)
19/7/2019
Mostro di Firenze - Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mostro_di_Firenze#Giancarlo_Lotti
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Nove
anni più tardi, nel 1994, a causa di una lite con un vicino di casa subì una
seconda perquisizione e vennero trovati 176 proiettili della stessa marca di
quelli usati nei delitti, punzonati con la lettera H, ma gli accertamenti non
portarono a nulla e Vigilanti venne scagionato. Per gli 8 duplici omicidi,
vista la vicinanza di Vigilanti con l'estrema destra, venne ipotizzata una
nuova pista legata alla strategia della tensione in Italia in base alla quale i
delitti sarebbero stati commessi per distrarre i magistrati dall’attivitÃ
eversiva dell'epoca. Nel 1998, anno della morte di Pacciani, Vigilanti tornò ancora
alla ribalta partecipando a un programma televisivo dove affermò di aver avuto
una grossa eredità da uno zio "Joe" americano mai identificato.[149]
L'ipotesi
fu poi ripresa nel 2017 dopo un esposto dell’avvocato Vieri Adriani, legale dei
familiari di Nadine Mauriot, una delle vittime e che sostenne che i delitti
cessarono nel 1985, proprio perché alcune perquisizioni “andarono nella giusta
direzione”. Il capo della Procura di Firenze Giuseppe Creazzo però smentì
subito che dalle indagini in corso siano emersi elementi di prova che
colleghino i delitti del cosiddetto mostro di Firenze con possibili ambienti
eversivi.[247][248] Vigilanti è stato
comunque indagato per concorso in omicidio per tutti gli otto delitti.[242] Si dichiara innocente ma dice di essere
a conoscenza di alcune informazioni.[241] A seguito di sue affermazioni, venne indagato anche Francesco
Caccamo, un medico di Prato di 86 anni del Mugello, iscritto alla massoneria[246] e indicato dal Vigilanti (che ha
anche affermato che Pacciani e Vanni erano innocenti[242][243]) come “uno degli anelli del secondo
livello” ovvero uno dei mandanti. Entrambi vennero iscritti sul registro degli
indagati ma dalla perquisizione a casa del medico non si ebbero riscontri a
questa tesi.[175][174] Vigilanti possedeva
una Beretta calibro 22, non risultata comunque essere l'arma del delitto dalle
analisi del 1994, di cui ha denunciato il furto nel
2013
(in un'intervista del 2017 ha detto invece che gli furono sottratte nel
settembre 2016[241])
assieme ad altre pistole di diverso tipo, che gli sarebbero state sottratte
durante un'effrazione.[242]
Nel
2019 l'anziano ex legionario, ancora sotto inchiesta, è stato denunciato per
maltrattamenti domestici dalla moglie.[249]
Pacciani
e Vanni vengono citati nel singolo Killer
Star di Immanuel Casto.[250] Pacciani viene citato anche nei brani
Su le mani e Momenti no del rapper Fabri
Fibra, dal rapper Lanz Khan nel brano I kill
you, nel brano L'Italia di Piero di
Simone Cristicchi, nel brano Camporea del gruppo musicale veneto Rumatera, nel brano Non crediamo in niente di Mr
Tools MC Bbo e nel singolo Numeri del rapper MadMan.
Si
parla di "Mostro di Firenze" anche nel brano Rotten del rapper Nitro. La serie televisiva
Criminal Minds: Beyond Borders ha dedicato il secondo episodio della seconda stagione agli
omicidi commessi dal Mostro di Firenze, ma in un nuovo contesto.
Nel
libro Hannibal di Thomas Harris, si fa riferimento al Mostro di Firenze come caso
giudiziario prima brillantemente risolto dall'ispettore Pazzi, il quale poi
cade in disgrazia quando il presunto serial killer viene scagionato.
Il 7
febbraio 1986 esce con poca risonanza e in pochissime città italiane il film L'assassino è ancora tra noi diretto da Camillo Teti, realizzato frettolosamente e con pochi
mezzi e che, pur cavalcando l'onda emotiva dell'ultimo duplice delitto del
1985, passerà del tutto
inosservato. Due mesi dopo, Il 12 aprile 1986, distribuito dalla Titanus di
Goffredo Lombardo, arriva sugli schermi Il mostro di Firenze, tratto
dall'omonimo libro del 1983 del giornalista e scrittore Mario Spezi e diretto
da Cesare Ferrario. Il film, che proponeva una efficace ricostruzione degli
avvenimenti e una interessante analisi della personalità del mostro, ebbe un buon successo
di pubblico, nonostante sia stato al centro di vicende giudiziarie e sia stato
osteggiato dalla commissione di censura che ne vietò l'uscita nelle sale
cinematografiche di tutta la Toscana.[251] Un altro film che ricalca la vicenda, pur inserendovi elementi di
fantasia, è 28º minuto (noto anche con
i titoli Tramonti
fiorentini e Quel violento desiderio), diretto da Gianni Siragusa e, successivamente, da Paolo
Frajoli. Pur essendo stato girato anch'esso nel 1986, uscì soltanto nel 1991, direttamente per
il circuito dell'home video, a causa del forte contrasto dei parenti delle
vittime del mostro che ne stopparono a lungo la lavorazione e ne impedirono l'uscita
nelle sale cinematografiche.[252]
Nel
settembre 2008 l'attore americano Tom Cruise ha acquistato i diritti per
portare sul grande schermo un adattamento del libro Dolci colline di sangue (The
monster of Florence) di Mario Spezi e Douglas Preston,
ma poi il progetto è saltato. Il film avrebbe dovuto avere George Clooney nel ruolo
del protagonista.[253]
Il regista
Antonello Grimaldi ha realizzato, nella primavera 2009, la miniserie televisiva
Il mostro di Firenze, una ricostruzione della vicenda dal 1981 al 2006 che vede come
protagonista il personaggio di Renzo Rontini (interpretato da Ennio
Fantastichini) il padre di Pia, vittima femminile del Mostro di Firenze del delitto del 1984, per il canale Fox Crime in 6 parti, della
durata di 45 minuti ciascuna, che sono andate in onda dal 12 novembre al 10
dicembre 2009 ed in seguito trasmesse in replica anche da Canale 5, in seconda
serata, nell'estate 2010.[254]